In una mite mattina dell’inverno del 1960, Salvatore Quasimodo riceve la laurea Honoris Causa conferitagli dalla Facoltà di lettere dell’Università di Messina, che accoglie con solennità il suo poeta appena insignito del Premio Nobel. Legge il discorso col tono sostenuto e formale, il volto fermo e una freddezza che è solo apparente e con la quale mira a prendere le distanze da ogni provincialismo. In realtà, in un misurato richiamo a sentimenti di amicizia e a vecchie intese, conferisce un significato assoluto al rapporto fra la sua poesia e la sua terra, trasfigurata in paesaggi e passioni antiche.
Non può sfuggire ciò che è rimasto fermo nella memoria personale: le saline, il battere dei telai dai cortili, i treni che lenti trasportano mandorle e arance, i gelsomini d’Arabia, gli olivi saraceni, le cicale, il vento del sud “forte di zagare”, l’orologio di cucina coi bordi di ceramica dipinta, le donne e gli uomini che piangono dolori sotto fronde di salici, con gli urli che si mescolano ai riverberi del mare, anime antiche rassegnate a un fatale immobilismo, in un paesaggio fisso ed eterno che pare sfondo di una tragedia attica. L’evento si carica di una forza simbolica, il rettore, commosso, avvolto dall’ermellino, è Salvatore Pugliatti, noto giurista, interprete del linguaggio ermetico del poeta, il compagno a lui più vicino nei difficili anni giovanili, vissuti nella Messina martoriata dal terremoto del 1908. Si incontrano insieme a Giorgio La Pira, dopo il percorso di studi tecnici secondari compiuto da Salvatore a Palermo, per le quotidiane visite alle librerie, maturando suggestioni e immaginari sull’humus fertile di cultura umanistica isolana, mentre Messina, la città di baracche, risorge. A 25 anni, ottenuto un posto stabile nel Genio Civile, il poeta si trasferisce a Reggio Calabria, ma torna ogni domenica pomeriggio a incontrare gli amici, coi quali anima un vivace cenacolo. Ne fanno parte altri uomini illustri della cultura messinese; in un angolo della sala grande del bar Irrera o in una saletta del Gran Bar, parlano di letteratura e commentano critiche letterarie.
Le rovine e le visioni di morte nella città devastata segnano Salvatore Quasimodo nel destino di “uomo ferito” e di poeta. Il padre Gaetano, capostazione delle ferrovie, viene mandato per servizio a Messina appena tre giorni dopo il disastro. Da Gela trasloca con la famiglia, Salvatore ha solo sette anni. Nella casa arrangiata in un vagone merci su un binario della stazione distrutta, vede “i morti sfrondati dai ferri” e “i ladroni presi fra i rottami e giustiziati al buio dalla fuciliera degli sbarchi”. Non dimenticherà più questa immagine dolorosa della sua terra e la “pazienza triste, delicata” del padre che col suo “berretto di sole” cerca di portare soccorso ed è lezione di umanità e di coraggio.