Il 22 dicembre 1849 Fëdor Dostoevskij fu condotto insieme ad altri venti compagni in piazza Semenovskij, a Pietroburgo, dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo dove era stato rinchiuso; gli lessero la sentenza, gli fecero baciare la croce e spezzarono gli spadini sopra le loro teste, secondo il rigido cerimoniale previsto per i nobili, li vestirono della tunica bianca dei condannati a morte e li legarono per tre al palo dell’esecuzione. A Dostoevskij, sesto della fila, nel secondo terzetto, rimase ancora qualche istante per abbracciare i compagni. Pensò al fratello, si rese conto di quanto lo amava. Solo un attimo prima dell’esecuzione, venne letto il proclama che annunciava la grazia imperiale già diramata, della quale i prigionieri erano stati volutamente tenuti all’oscuro, con la commutazione di pena: lavori forzati, o semplice deportazione in Siberia. Lo Zar Nicola I scrisse sul fascicolo di Dostoevskij: “Per quattro anni. Poi soldato semplice senza diritto di promozione”.
Arrestato il 23 aprile 1849 e privato di ogni grado militare, era stato condannato a morte per fucilazione dalla giustizia militare, con l’accusa di aver partecipato ad attività eversive. Membro attivo del circolo socialista di Petrasevkij, interessato alla questione sociale, durante le riunioni aveva preso più volte la parola contro le torture, le punizioni corporali nell’esercito, la censura, e aveva chiesto l’abolizione della servitù della gleba e maggiori garanzie costituzionali. Il circolo non si configurava come una società segreta, le questioni discusse erano largamente dibattute anche nei salotti mondani, e nessun membro aveva mai manifestato apertamente l’intenzione di scendere in piazza, o di rovesciare la monarchia, ma in seguito ai moti del 1848 che avevano investito gran parte dell’Europa, la Russia sentì la necessità di dimostrare di poter prevenire ogni possibile focolaio di rivolta.
Dostoevskij descrisse nei minimi dettagli le crudeltà e i tormenti a cui vennero sottoposti i prigionieri nei campi di lavoro, mentre su quei pochi minuti in cui vide la morte in faccia, scrisse, in una lettera al fratello Michail, con sorprendente semplicità e sobrietà, senza accennare neppure ai soldati schierati col fucile puntato a quindici passi dai primi condannati o ai rulli di tamburo. Tuttavia, la spaventosa esperienza lasciò una traccia indelebile, probabilmente fu la causa principale del cronicizzarsi dell’epilessia. Rivivrà più volte, attraverso i suoi personaggi, l’orrore di quei momenti. Fa dire al principe Myskin nell’Idiota: “Leggete a questo soldato la sentenza che lo condanna con certezza, e impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché un affronto simile, mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letto la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi, e poi hanno detto: “Va’, sei graziato: ecco un uomo simile forse potrebbe raccontarlo”.