La luce dorata del pomeriggio filtrava attraverso le tende chiare del salotto.
Nell’angolo, su una grande poltrona, Herman Melville sedeva con gli occhi chiusi e le mani poggiate sulle ginocchia.
Cullato da una specie di torpore, in quel momento si trovava sull’Acushnet, la baleniera dove si era imbarcato per la prima volta, nel giugno del 1842.
La nave, dopo qualche giorno di navigazione nel Pacifico, aveva raggiunto le isole Marchesi. Il porto naturale di Nuku Hiva appariva tranquillo, ma Hermann, insieme al suo collega Toby Greene, aveva disertato: entrambi si erano nascosti nei boschi dell’isola, dove nessun marinaio si avventurava mai perché era un luogo considerato pericoloso, popolato da tribù di cannibali.
Un mese dopo, lui e Toby si erano arruolati sulla Lucy Ann, una baleniera australiana il cui equipaggio si era ammutinato. Melville si era schierato con i disertori e per questo era stato arrestato e processato a Tahiti, ma ancora una volta era riuscito a fuggire e a raggiungere l’isola di Eimeo dove era rimasto a coltivare patate.
Il richiamo del mare, però, era tornato a farsi sentire e dopo aver raggiunto le Hawaii si era imbarcato, per l’ultima volta, sulla United States, in rotta verso l’Oceano Pacifico.
Adesso, nella sua casa di New York, rivedeva ancora i “pascoli marini” solcati durante gli anni di vagabondaggio, le cattedrali di boschi e foreste abitate da feroci tribù e idoli misteriosi, tutto quel blu, liquido e infinito, e lui sempre in fuga, per non farsi prendere, per non farsi imprigionare…
«Proprio come Moby Dick» pensò.
Un rumore di passi lo risvegliò dal torpore, una voce di bambina lo stava chiamando.
Melville raddrizzò la schiena e aprì le braccia per accogliere sulle ginocchia malandate Eleanor, la sua nipotina che, come ogni sera, voleva ascoltare storie fantastiche di mari lontani e isole misteriose.
Bibliografia:
Herman Melville, Typee. Avventura in Polinesia, Piano B;
Herman Melville, Moby Dick, Einaudi.