Non si butta via niente

Lino non si tocca, gliel'avevano promesso. E invece...

Della vita, mio padre si prende tutto.

“O te arrivi, o te copo” sbraita da sotto le scale, al piano terra.

Non fiato. Ma so che è peggio, perché se non parlo verrà a prendermi.

“Me fa nausea” dico tra le lacrime.

“Devi farte la bocca. Movete!”

Non mi muovo. Resto ferma sotto il letto come uno dei gatti neri che ogni tanto passano per casa nostra, arraffano e quando non riescono a scappare in tempo, si mimetizzano negli angoli.

“Iiiiiiiiieeee” il lamento arriva alle mie orecchie come il fischio di un treno lontano. Non sento altre minacce. Mio padre, di solito, quando succede sto evento, mi lascia stare, “Ma prima o poi te tocca” ha ripetuto più volte.

“Stavolta no” mi aveva promesso mamma.

Gli Iiiiiiiieeeeeee, che arrivano dalla corte, adesso, sono più lunghi, più intensi. Mi tappo le orecchie, serro gli occhi.

Un conato di vomito si fa largo in gola.

“Eccote” la voce bomba sui timpani. Mio padre è venuto su, in camera, con gli stivali incrostati di fango e paglia, incurvato, passa il bastone sotto il letto, pungola, mi scova, mi brinca per una caviglia.

“Te tocca.”

“Non voglio” gli scalcio contro “Mi fa schifo.”

Mi tira su in piedi, mi urta per le scale. Arrivo giù a salti. Finisco davanti al patibolo insieme a Lino.

“Noooo” urlo.

Non doveva essere lui.

Lino non piange più.

 

Siamo seduti su tronchi di legno, ghiacciati. Mio fratello ci strappa cortecce, le butta sul fuoco montando un miasma da legna verde.

“Basta. Ce soffochi” urla mio padre.

Sotto il portico ballonzola la carogna del maiale, appeso per le zampe posteriori con la pancia squartata e le budella di fuori come copertoni sgonfi. Lo sbrego alla gola ha rovesciato nel secchio un fiume di sangue, con la forza di un drago spiratutto.

“Senti come vien zo de gusto” ha detto il macellaio col coltello in mano.

“Assasin” gli ugolo contro. Le lacrime m’intasano gli occhi.

Ride. E con lui mio padre e mio fratello. Anche nel viso di mamma mi sembra di vedere una smorfia contenta.

Mio padre s’è fatto onore di tagliare il primo pezzo di carne, ancor prima che la morte cominciasse l’opera, c’ha raschiato via sporco e peli, poi una ripulita veloce con le mani.

“Pronti con i piatti?”

L’odore del grasso che cola e sfrigola sulla bronsa calda mi arriva al naso, che s’imperla di gocce e lacrime. Sul focolare di pietra mora, ereditato da nonno, mio padre tira su, con una paletta di ferro, la sleppa di carne, le fa fare una capriola, la rischiaffa sulla pietra che tra fumi e calore pare dilatarsi.

“Sì” urlano tutti.

Con i calzettoni senza elastico e le ginocchia sbucciate, mi torco, stringo il golf largo di mamma, sento il gelo sulla schiena, in faccia mi arriva il caldo secco del fuoco.

La palpebra sinistra mi batte, chiudo gli occhi umidi.

“Peggio delle bestie” dico.

“Noialtri o loro” risponde il macellaio con il grembiule schizzato di sangue mentre con l’accetta trancia i primi quarti.

Il freddo colloso di novembre non separa il fiato mio dall’umidità che sale dalla terra. Sul fango nero, traslucicano pozzanghere rosse di sangue, liquidi corporei e la fiamma del fuoco. Pare pomeriggio tardi e invece sono le dieci di mattina. Il coperchio delle nuvole ci tiene pressati lì sotto.

“Come cani rognosi” dico, ripetendo le offese che mio padre rivolge agli zingari “Che si spartiscono il bottino dopo le ruberie”.

“Oè, qua nessun ga rubà gnente” risponde lui.

Mio fratello si prende il pezzo di carne calda e mi dà uno spintone.

“Lino era mio” urlo “Perché lui, perché?” Il pianto mi strozza le grida.

“Chi gli andava dietro? Io” dice.

“Non è vero” salto come un grillo “Mi lo strigliavo, lo nettavo, gli davo da mangiare.”

“E a me lasciavi la merda. La ladra te si ti” mi sputa addosso.

M’accuccio accanto al catafalco dell’acqua bollente che ha frollato la pelle rosa di Lino.

Sì, la ladra sono io che ho detto panzane. Il maiale, meno puzzone degli altri, più piccolo, carino, mi seguiva dappertutto, correva con le gambette unite a due a due, appena uscivo in corte mi chiamava con i suoi versi.  Giocavamo a indovina dove metto le bucce di patate e frutta e col suo nasone le trovava sempre.  Non gli serviva palo, né catena. Non faceva il matto come quella scrofa di sua madre, che si arrabbiava per niente. Grugnosa. Sempre incazzata e con il muso lungo, tanto uguale a mio padre. Lino era simile a me, l’unico porco gentile sulla faccia della terra. Per questo gli avevo promesso vita lunga, ripetendo a tutti “Lino non se tocca” e nei loro sorrisi e smorfie ci avevo visto tante conferme.

 

Tutti intorno al fuoco a divorare il proprio pezzo di carne. Un movere continuo delle mascelle, che gonfia le guance.

Do loro le spalle. Non riesco a guardare il brigare dei denti che triturano come macine.

Mio padre mi mette un trancio sotto il naso.

“Magna!”

Non dico nulla. Tengo il muso duro.

Mi prende il grugno, mi slarga le labbra e mi ficca dentro il boccone.

“Mastega!”

Tra le lacrime vedo mia madre che infila le mani tra i budelli, ci spurga la merda, poi li porta sotto al getto d’acqua, li passa con le dita, li rigira come calzini, li strofina, li struscia. Le stesse mani che fanno la pasta, che m’insaponano il corpo e m’accarezzano col borotalco.

Non l’ho mai vista così, almeno non ne ho memoria.

E in un sol colpo vomito tutto lo schifo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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