Nelle lezioni precedenti:
- Lezione 1: I tre atti
- Lezione 2: Battere il nemico
- Lezione 3: Il desiderio del protagonista
- Lezione 4: Il fatal flow
- Lezione 5: Fight for your right to zombie
- Lezione 6: Punire Paolo
Il buono, il brutto e il cattivo
Lezione del 7 dicembre.
Dal punto in cui racconto questa storia, la sera del 7 dicembre me la ricordo un po’ come un incubo, non necessariamente tutto negativo. La sensazione che ho ora, mentre scrivo, è quella che ti lasciano i sogni che vivi senza sapere come sei arrivato in un certo posto e com’è andata a finire la storia.
La situazione nel paese si andava facendo sempre più complicata. La tensione, che in genere albergava in TV e negli scontri tra politici, cominciava a serpeggiare a tutti i livelli della società. Io stesso avevo visto morire il mio collega Paolo per un semplice battibecco e avevo accettato quella morte come… come? Giusta? Necessaria?
A lezione c’erano molti zombie quella sera. Ero così stanco e frastornato che mi pareva di vivere fuori dal mio corpo. Continuavo a spiegare ma procedevo col pilota automatico inserito.
Avevo mostrato l’inizio de Il buono, il brutto e il cattivo, con la presentazione dei personaggi. Una volta riaccesa la luce, dal fondo si era levata una domanda: “Perché si chiamano buono, brutto e cattivo? Non è un po’ generico e didascalico?”
“Piantala”, aveva risposto un altro zombie senza lasciarmi il tempo di parlare, “Stai parlando di un capolavoro. Pensa prima di parlare”.
Si era acceso un piccolo dibattito che non stava portando a niente. Ho battuto tre volte la mano sul tavolo, come faceva la mia maestra delle elementari quando perdeva la pazienza. Gli zombie si erano interrotti immediatamente ed erano tornati a guardarmi.
“Non dobbiamo lasciarci fuorviare dai nomi”, ho detto, “Non è di questo che parleremo oggi. Userò questi tre personaggi per farvi capire che quando si scrive una storia bisogna evitare un grande nemico: il doppio. Vedete, quando si scrive una storia, spesso succede che due personaggi si somiglino in modo esagerato. Ecco, questa è una regola che vi dovete scrivere sulla pelle con il sangue…”
Una voce dal fondo: “Quale pelle? Quale sangue?” Avevano riso. Avevo riso anche io.
“Giusto”, ho detto, “Allora scrivetela sulle ossa con un carboncino. Oppure ricordatevela e basta. Comunque, la regola è che in una storia non possono esistere due personaggi che agiscono, pensano e si atteggiano nello stesso modo perché questo crea una ridondanza che non funziona mai”.
“Cioè”, ha detto il musicista con la giacca di pelle. Non lo vedevo da un po’ di tempo a lezione. “Ci stai dicendo che in una storia può esistere solo un buono, solo un brutto e solo un cattivo?”
“Sì, ma non è solo questo. La caratterizzazione di un personaggio è fondamentale e questo film ci aiuta a capire perché. Qualcuno ha qualche idea?”
Si era creato quel silenzio imbarazzato che si crea a lezione quando gli allievi hanno paura di rispondere per evitare di dire la cosa sbagliata. A me piaceva lasciarlo un po’ sospeso quel silenzio, in modo che poi la spiegazione arrivasse come una rivelazione. Una piccola epifania narrativa.
“Ve lo dico io allora”, avevo detto, “Il buono, il brutto e il cattivo vogliono la stessa cosa. Il bottino. Solo ognuno di loro si muove in modo diverso. E questa modalità è dettata dalla loro natura. Tra i tre contendenti solo uno può riuscirci perché chi scrive crede in uno dei tre e non in tutti e tre”.
Di nuovo quel silenzio che seguiva una rivelazione. Dopo poco però si era levato un vociare dal fondo della sala. Io me ne stavo in attesa che qualcuno facesse una domanda o contestasse quello che avevo appena detto. Quando era passato abbastanza tempo senza che nessuno dicesse qualcosa, avevo detto “E adesso vediamo nello specifico cosa fanno i tre personaggi per ottenere quello che vogliono e come lo fanno”. Mi sono reso conto solo a quel punto che non mi stavano più ascoltando. Guardavano tutti fuori, oltre i vetri della porta di ingresso. Tre carabinieri se ne stavano fuori a guardare nella sala, in attesa che mi voltassi. Alle loro spalle c’erano una pattuglia e due camionette con i lampeggianti accesi.
Mi ero alzato e avevo aperto la porta: “Avete bisogno di me?”
“Lei è” e uno dei tre aveva detto il mio nome. Avevo annuito, “Come vi posso aiutare?”
“Abbiamo un’ordinanza”, ha detto sempre lo stesso, “Dovrebbe sgomberare la sala”. Alle mie spalle sentivo quello che ormai conoscevo bene come un segno di nervosismo da parte degli zombie: uno scricchiolio diffuso di ossa, un rumore indescrivibile e sinistro.
“Non posso sgomberare la sala, stiamo facendo lezione, mi dispiace”, ho detto. Chissà perché pensavo che a quel punto avrebbero chiesto scusa per il disturbo e se ne sarebbero andati.
“Non ha capito”, ha detto il carabiniere, “Non le stiamo chiedendo un favore. Deve sgomberare la sala e venire con noi”.
“Ascolti”, avevo detto, “Se non sono in stato di fermo, e non mi pare di esserlo, posso finire la lezione e venire da voi subito dopo”.
Ci sono delle frasi che, con le forze dell’ordine, cambiano tutto. Anche loro, un po’ come gli zombie, non hanno sfumature: o è bianco o è nero. La frase che avevo pronunciato li aveva accesi e, forse, era quello che volevo. Era comparso un quarto carabiniere con la barba bianca, un veterano.
“Senti”, aveva detto, “O fai uscire questi quattro straccioni da qui adesso oppure li portiamo fuori noi a calci nel culo”.
A quel punto avevo cinque o sei zombie dietro di me. Mi avevano spinto fuori e la sala intera si era riversata sulla strada come una piccola valanga di ossa fradice. Avevano circondato i quattro carabinieri e, con molta calma, li avevano disarmati e divorati. Il più giovane dei tre aveva assistito alla scena dello smembramento dei suoi colleghi. Era terrorizzato e quando qualcuno gli aveva infilato le ossa nel petto per strappargli il cuore, mi era parso sollevato.
Quella del 7 dicembre è stata l’ultima lezione nel quartier generale della nostra scuola di scrittura creativa. Ed è stato il mio ultimo giorno da uomo libero. Gli zombie mi avevano trascinato con loro, molto lentamente ma inesorabilmente, fino al Verano. C’era voluta un’ora per fare un chilometro e per strada tutti ci guardavano. Dall’alto un elicottero ci aveva seguiti per tutto il tempo.