Laboratorio di scrittura creativa per morti viventi: Lezione 1

Uno scrittore è un morto che cammina

I tre atti

A ottobre è venuta da me la presidente dell’associazione culturale per cui lavoro e mi ha chiesto di fare da tutor per un nuovo laboratorio di scrittura creativa. Ho rifiutato, visto che da sei mesi non facevano altro che appiopparmi turni di notte al lavoro. Quando tornavo la mattina a casa, dopo aver fatto lo slalom tra le macchine in divieto di sosta per sei ore con l’idropulitrice, non mi sentivo per niente fresco. Pallido, emaciato, mi guardavo allo specchio e mi chiedevo come avessi fatto a finire all’AMA. 

Doveva trattarsi di punizione divina. 

Comunque, le mie argomentazioni non sono bastate, perché la presidente mi ha detto “Non puoi rifiutare questa volta, mi dispiace” 

“Sono distrutto. Dormo venti ore a settimana.” 

“Senti, non hai capito. Questi sono un gruppo di zombie” 

“No, per favore, gli zombie no. Perché tocca sempre a me prendermi questi gruppi?” 

“Si sono innamorati di te. Cioè uno si è innamorato di te per una cosa che hai detto. È un pezzo grosso. Parliamo di ZIPR. Zombie Italiani Per la Rinascita. Ha messo su un gruppo di sedici morti viventi. Pagano in anticipo tutto il corso.” 

“E cosa avrei detto per farlo innamorare?” 

“Hai detto che uno scrittore è un morto che cammina” ha risposto e ha sorriso. 

E allora mi sono ricordato di quello zombie. Era venuto a lezione come uditore ed è stato piuttosto imbarazzante. Se ne stava in fondo alla sala, isolato. L’odore di putrefazione e terra bagnata rendeva l’aria irrespirabile. Avevamo dovuto tenere le porte aperte, nonostante il primo freddo, e un paio di allievi si erano lamentati. 

Ce l’ho messa tutta per evitare di far partire il corso ma non c’è stato verso. Il fatto è che con gli zombie, qualsiasi decisione tu prenda, sembra sempre avere a che fare col razzismo. 

“Con tutto quello che gli sta facendo passare il governo, non volete fargli fare nemmeno il corso?”, ha detto mia madre. “Vedi di crescere”, ha aggiunto mentre mi metteva davanti mezzo chilo di pasta al ragù, “quel sindacato sta dando speranza di una vita dignitosa a tantissimi zombie”. 

“Vita, mamma?” 

“E perché, tu come la chiami? È pieno di italiani vivi che sembrano zombie, guardati intorno. Oh, non è che stai diventando antizombista?” 

Mia madre mi tratta come se avessi quindici anni. 

Alla fine, ho accettato. Che dovevo fare? 

Un sacco di gente, ormai, frequenta i corsi online. Gli zombie no. Un po’ perché amano la presenza. Un po’ perché loro, la pandemia, non l’hanno vissuta per niente male visto che non potevano infettarsi e trasmettere virus. E poi, per decreto, il computer non ce lo possono avere. 

Ho convinto la presidente a comprare un purificatore d’aria ma non c’è molto da purificare quando ti ritrovi sedici corpi putrefatti in una sala di settanta metri quadri. Certo, avrei potuto indossare una mascherina, ma cosa avrebbero pensato? Secondo gli zombie, siamo noi a puzzare. Di nuovo il razzismo, bel problema. 

Mi sono spalmato un unguento alla menta sotto al naso e sono arrivato in aula mezz’ora prima. Ho preparato tutto, gadget inclusi, e ho aspettato che arrivassero. I corsi si tenevano la domenica sera dalle sei alle otto. Alle sei meno dieci del 2 novembre 2022 non si vedeva ancora nessuno, motivo per cui ho sperato che non ce l’avrebbero fatta. In cuor mio immaginavo che la polizia li avesse fermati e riportati al cimitero o addirittura dentro chissà per quale reato. Invece sono arrivati tutti insieme con dieci minuti di ritardo. 

La menta non è servita a niente. L’odore di sedici zombie al chiuso è indescrivibile. Mentre si sedevano (ci avranno messo dieci minuti a prendere posto, sono lentissimi), pensavo alle venti ore di corso che avevo davanti e ho pensato di non farcela. 

Ho acceso il microfono e ho detto “Buonasera, benvenuti. Io mi chiamo Massimiliano e sarò il vostro tutor per questo corso…”. Non lo so perché l’ho fatto, davvero, fatto sta che ho pronunciato questa prima frase scandendo le parole, come se stessi parlando a bambini di quattro anni o a degli stranieri. Oronzo (lo avevo riconosciuto subito) ha alzato la mano. 

“Perché parli come se fossimo dei deficienti?” 

Una cosa sorprendente degli zombie è che la loro voce non corrisponde al loro aspetto fisico. Su questo la cinematografia ha sbagliato, in effetti. Li ha danneggiati. Come il trucco blackface ha danneggiato i neri o la parlata con L al posto della R, i cinesi. La loro voce è perfettamente normale. 

“Guarda che ti capiamo, puoi parlare normalmente”, ha aggiunto l’amico di Oronzo, Oreste. Hanno riso tutti. 

“Avete ragione”, ho detto, “chiedo scusa”. Così ho ripreso la lezione e li ho fatti presentare, cercando di memorizzare i loro nomi. Oronzo doveva essere grasso in vita, perché i vestiti che gli sono rimasti addosso erano enormi e quello che rimaneva del suo corpo lo faceva sembrare una stampella su cui qualcuno ha appeso vestiti per obesi. 

Oreste, il suo amico, doveva essere ricco. Lo hanno seppellito con uno smoking e gli toccava andare in giro così. La camicia era logora e quando parlava si potevano vedere i vermi che continuavano a roderlo dentro. Stava facendo una cura ma pare che i vermi proprio non si possano mandare via da un corpo in putrefazione. L’ho letto su Wikipedia. 

Quella più difficile da dimenticare è Matilda. Aveva gli occhi che pendevano dalle orbite e teneva i fogli sulle gambe per prendere appunti. Quando doveva parlare o guardare uno schema sul proiettore, li rimetteva nelle orbite facendo attenzione a non schiacciarli e ruotava la testa all’indietro per far sì che non cadessero. 

Sono partito dai tre atti che io spiego sempre con una metafora. “Pensate i tre atti così così”, ho detto, “un uomo sale su un albero, atto primo, il protagonista è in zona di comfort ma si capisce che qualcosa sta per cambiare. Ed è a questo punto che l’autore gli comincia a tirare i sassi. Questo coincide con il secondo atto…” 

“Cioè, dobbiamo tirare dei sassi proprio al personaggio della storia?”, ha chiesto Livia. Livia è morta giovane. Aveva una maglia strappata dei Led Zeppelin e le Dr Martens che, c’è da dire, erano praticamente intatte. Le fanno bene. 

“No”, ho risposto, “i sassi rappresentano i problemi del protagonista. E siccome gli autori siete voi, siete voi a doverglieli tirare”. 

“E se io voglio scrivere una storia dove il protagonista non ha problemi?” 

“Beh, è un po’ difficile che possa essere interessante”, ho detto, “le storie si basano sui problemi. Sono il cuore pulsante delle storie. Infatti, poi, quando avete finito di tirare i sassi, il personaggio deve scendere dall’albero e se è vivo abbiamo una commedia, altrimenti è una tragedia”. 

“E se a salire sull’albero è uno come noi? Cioè, se è uno che non può essere danneggiato?”, ha insistito Livia. È dovuto intervenire Oronzo, “Livia, cazzo, non sono proprio sassi, capito? È una metafora. Se sull’albero ci sale uno zombie e se magari quello zombi si innamora di un vivente, allora quello è un problema, cioè un sasso, perché noi non possiamo farcela coi viventi”. 

“Sì, esatto”, ho detto, “è proprio come dice Oronzo. Bravo…” 

A quel punto Livia ha alzato la mano, cosa che non aveva fatto per gli altri interventi. 

“Di’ pure, Livia”, ho detto. 

“Posso andare al bagno?” 

“Non devi chiederlo, puoi andare” 

Oronzo ha aspettato che uscisse e poi mi ha guardato. O almeno, mi pareva che stesse guardando me, visto che lui non aveva gli occhi. 

“Lo sai che noi zombie non cachiamo e non pisciamo no?” 

Ho annuito. 

“È andata fuori a piangere. Livia è giovane, fragile. Se riesci a essere meno diretto con lei è meglio”. 

“Quindi piangete?” ho chiesto. 

“No che non piangiamo. Però quando ci viene da piangere facciamo la stessa cosa che fate voi. Cioè, ci appartiamo”. 

Ho aspettato che Livia rientrasse e ho ripreso a spiegare, cercando di essere meno diretto, più carino, cercando di tenere a mente il fatto che anche loro hanno un’anima. 

“Vedete, i tre atti non sono tassativi. Nulla di quello che vi dirò lo è. I migliori scrittori, alla fine, non hanno fatto che infrangere le regole. Quindi potete farlo anche voi”. 

Il primo esercizio che diamo di solito è sul terzo atto, sulla fine: Descrivi una camera mortuaria dal punto di vista del morto. L’ho cambiato, mi pareva un po’ scontato. La nuova traccia è diventata: Racconta cosa stavi facendo quando sei morto. 

Livia, per la prima volta durante quella lezione, ha preso un appunto. 

Quando abbiamo finito, Oronzo ha aspettato che tutti si trascinassero fuori, poi è venuto da me. Mi ha dato una pacca sulla spalla piuttosto polverosa e mi ha detto “Grazie. Bella lezione. Noi andiamo a farci una birra, vuoi venire?” 

“Mi dispiace ma tra poco ho il turno”, gli ho risposto. Ed era vero. “Quindi bevete?”, ho chiesto. 

“Sì che beviamo. Certo…” ha detto e mi ha guardato come se fossi scemo. Cioè… Guardato non è il termine giusto, sempre per il fatto che non aveva gli occhi. Però, in qualche modo, lo ha fatto. 

“Magari la prossima volta vieni con noi”, ha detto lui, “se c’è una cosa buona nell’essere morti è che nessuno ti ordina più di fare niente” e si è trascinato fuori con gli altri. 

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Massimiliano Ciarrocca

Ex allievo di Paolo Restuccia. Ha pubblicato il libro Pronto France'? (Fazi, 2014), ha collaborato con Liberoveleno e ha scritto lo spettacolo teatrale Buon Natale, la trilogia del livore. Ha recentemente realizzato il podcast Apocalips Bau in collaborazione con Filosofia Coatta e Genius. Insegna in diversi laboratori creativi.

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