Tornerà in libreria tra pochi giorni Arturo Belluardo, con un romanzo, Ballata per la sirena (Giulio Perrone Editore 2022), che verrà presentato il prossimo 22 luglio a Roma, alle “Industrie fluviali”. Si tratta di un autore che conosco da anni e che è stato accompagnato nei suoi primi passi nella narrativa da due dei nostri genius, Luigi Annibaldi e Lucia Pappalardo (gratificati anche da una citazione sotto forma di nomi dei personaggi in uno dei suoi libri), ed è un romanziere che ho visto evolvere nella sua passione ricambiata per la scrittura. Adesso, dopo Minchia di mare e Calafiore, due romanzi che hanno colpito l’attenzione della critica e dei lettori, stavolta mi sembra che ci troviamo di fronte a un narratore che si mostra in una scrittura più intima e lirica, che usa una trama esile, quasi tratteggiata, per immergersi e far immergere il lettore in una sorta di canto, non proprio quello delle sirene ma non troppo lontano negli intenti di catturare il navigante e imprigionarlo. La madre, le madri, la donna, le donne, la terra natia, il mare, le sirene, la fascinazione della parola e il suo suono si uniscono e si mescolano in un tessuto a volte rapsodico. Sicuramente si tratta del lavoro di Belluardo più ambizioso anche se certamente diverso dai romanzi precedenti. E poi a parte tutto, anche solo la raccolta che sta facendo sui social, di immagini di sirene inviate da più parti del mondo, merita uno sguardo. Così è giunto il momento di proporgli le solite domande della nostra rituale intervista della domenica.
Come nasce Ballata per la sirena?
Nasce da La sirena di Tomasi di Lampedusa, che, per me, è uno dei racconti più belli che siano mai stati scritti e che ho sempre guardato con timorosa reverenza. Poi ho conosciuto Mariagiorgia Ulbar e il suo poemetto Lighea, che ha la stessa ispirazione. E ho pensato ai Canti Barocchi di Lucio Piccolo, il poeta siciliano scoperto da Montale, e a suo cugino che si mise a scrivere per dimostrare di non essere da meno. Il cugino di Piccolo era Tomasi di Lampedusa. Insomma, come Frankenstein Junior ho gridato “Si può fare!” e ho iniziato a pensare a come raccontare un incontro con una sirena ai giorni nostri.
Questo romanzo che parentela ha con i tuoi romanzi precedenti? Hai lavorato in un modo differente per scriverlo?
Credo che il leit-motiv della mia scrittura sia la frase di Camus secondo cui «c’è la bellezza e ci sono gli oppressi. E per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi». L’oppressione dei deboli è il tema che mi ha sempre guidato nei romanzi precedenti, accanto alla ricerca della parola, della sua sonorità, della sua capacità immaginifica. In più, nella Ballata, ho lavorato in maniera più jazz, lasciandomi andare all’improvvisazione; non partivo da una trama e da una struttura rigorosa, come in Minchia di mare, ma da un canovaccio, facendomi trasportare da quello che veniva fuori mentre scrivevo, modellandolo con un dito, come si fa con una goccia d’acqua caduta sul tavolo, allargandola ed espandendola in arabeschi iridescenti.
In questi ultimi anni la figura della madre mi pare al centro di alcune opere letterarie, forse più del solito, penso a Crocifisso Dentello, Paolo Del Colle, Romana Petri, ecc. Cosa ti ha spinto a parlare di una Madre, che però qui mi pare più di una madre, no?
Tieni conto che il titolo del romanzo doveva essere Dura madre (l’abbiamo dovuto scartare per evitare sovrapposizioni con il romanzo di Fois). E cioè quella scorza che protegge la parte più delicata del cervello. E quindi la madre come forza protettrice e come guscio opprimente. Ma la madre è anche la terra in cui sono nato, Siracusa, una città greca, in cui sono cresciuto a pane e Tragedia. La madre è la mitologia, la madre di tutti i racconti. E la madre è la sirena che ci affabula con le sue narrazioni. Per finire con il grande ventre del mare.
C’è chi ha descritto il tuo linguaggio, ricco e denso in questo testo, come un linguaggio onirico, ti ritrovi in questa definizione?
Secondo la Qabbalah, la realtà, lo spazio e il tempo non esistono. Tutto è fumo (come si dice nell’Ecclesiaste) che cela il piano supremo dell’esistenza. A questo piano noi possiamo accedere solo attraverso i sogni, sganciandoci dal piano fisico, pesante. Se inteso in questo senso, il linguaggio, il linguaggio creativo in genere, non solo il mio, è sicuramente onirico. Forse più misterico, che onirico. È una chiave d’accesso ad altri mondi, è il modo in cui si sprigiona la forza creatrice dell’uomo.
Più nello specifico, il lavoro che ho fatto sulla lingua in questo libro è di stratificazioni successive, di contaminazione di generi, si va dall’elenco delle navi dell’Iliade al finale di Casablanca. I miei punti di riferimento sono Carlo Emilio Gadda e Philip Roth (passando per D’Arrigo).
Il protagonista quanto ti somiglia?
Nelle fragilità sicuramente, nei suoi lati senza pelle. E nel suo amore sconfinato per il mare. Per descriverne la parte più dura, la scorza, ho comunque fatto un viaggio nei miei luoghi oscuri, nelle parti peggiori di me, nell’omuncolo razzista e becero che alberga dentro ognuno di noi, anche se ci rifiutiamo di ammetterlo.
La voce narrante è quella di un avvocato duro, razzista e sessista però è anche colto e non lesina competenze letterarie e culturali, che uomo è?
Come si scoprirà leggendo il libro, è in realtà un uomo disperato, talmente rannicchiato in difesa di sé e delle sue ferite, da diventare un animale a sangue freddo, lui si autodefinisce un rettile. Il libro, se vogliamo, è un processo iniziatico di catarsi, di purificazione, che però si rivela inutile se non è accompagnato dall’assunzione della responsabilità verso gli uomini.
Ci sono frasi molto dure, come quelle sulle badanti straniere, non temi che possano essere fraintese?
Non c’è niente in questo libro, quando il protagonista dà sfogo alla sua anima razzista, sessista e antisemita, che non sia tratto dalla realtà, da frasi che sento tutti i giorni. Anche pronunciate da persone miti e buone. O da fior di intellettuali. Pensa allo scambio di battute fuori onda sulle ucraine tra la Annunziata e Di Bella all’inizio della guerra. E io il libro l’ho finito di scrivere prima…
Tra tante sirene letterarie, che sirena è la tua? C’è un frammento in cui invece del canto ne descrivi l’odore: “Quell’odore che è la vera musica, che è il vero canto della Sirena.”
In realtà le sirene sono due. Una è la madre-sirena. La seconda è l’incarnazione della meraviglia violata, è tutte le donne che abbiamo amato e che ci hanno respinto, ha un volto mobile, cangiante. E una carnalità profonda. Come sai, io sono un grande fan della scrittura dei sensi, specialmente dell’olfatto: per me le persone, i sentimenti sono essenze, fragranze. Ho cercato di rappresentarla così.
E poi il mare, c’è proprio una sorta di inno al mare con il protagonista che ripete a un certo punto: “Sto fottendo il mare”.
Il mare è la mia anima profonda. Ci sono nato e cresciuto sul mare. Da ragazzo, d’inverno, stavo ore a guardare le mareggiate, a farmi bagnare dagli schizzi dei cavalloni, ad ascoltare il loro brontolio liberatorio. Per me immergermi e stare le ore a seguire i pesci nelle loro tane, a ritrovarli ogni anno, nel mio posto del cuore, è un ritorno alla vita. E soffro a vederlo violentato. Sporcato dall’immondizia e dai morti. Il Canale di Sicilia è una tomba liquida: leggete La frontiera di Alessandro Leogrande, leggete la descrizione che fa dei migranti morti sott’acqua. Non lo meritiamo il nostro mare.
Alla fine fai un elenco di “Avvistatori di sirene (o sirene essi stessi)”, è anche una sorta di bibliografia?
Sì. Quando ho iniziato a documentarmi per il libro, mi sono spaventato nel vedere in quanti avessero affrontato il mito delle sirene. Kafka, Brecht, Forster, Camilleri, per citarne alcuni. Ho chiesto aiuto a un’amica, redattrice della Treccani, Fiammetta Lozzi Gallo, che mi ha fatto una vera e propria mappa concettuale e letteraria delle Sirene e che mi è servita per capire in quali acque nuotare. Ma nell’elenco ci sono anche le mie “sirene protettrici”, che mi hanno accompagnato nella realizzazione di questo libro.
Da mia figlia Arianna, che condivide con me la passione per il mare (lei ha il coraggio di bagnarsi nel Mare del Nord) alla mia compagna Corinna, che è la prima a leggere quello che scrivo. Da Mariagiorgia Ulbar, e il nostro mare colore del vino, a Rossana Campo, che mi ha seguito passo passo in questo progetto, a Ilaria Gaspari, che mi ha fatto scoprire la sirenologa Meri Lao, a Giulia Caminito, che ha fortemente voluto l’uscita di questo libro, ad Anna Voltaggio, che da sei anni mi accompagna con vero amore nella promozione delle mie cose.