Ancora sull’autobiografismo

Oggi analizziamo un bel romanzo uscito un paio di anni fa – La metà del cielo, Mondadori, – del marchigiano Angelo Ferracuti.

Diciamo qualcosa ancora sull’autobiografismo, di cui ci troviamo a parlare spesso, per un motivo o per l’altro, in questo spazio didattico semiserio – un autobiografismo variamente declinato in Autofiction o in saggio personale (Personal-essay) o in memoriale, in reportage o in libro-verità… ne abbiamo visti di tutti i tipi, di autobiografismo, di tutti i colori, – oggi analizziamo un bel romanzo uscito un paio di anni fa – La metà del cielo, Mondadori, – del marchigiano Angelo Ferracuti – libro che abbiamo letto solo ora, forse perché un po’ ci spaventava, a dirla tutta, per i temi che affrontava, la vita coniugale, la malattia e la morte della prima moglie, soprattutto, Patrizia, che abbiamo conosciuto e abbiamo ritrovato in un ritratto forte di affascinante pasionaria. L’io narrante si chiama come l’autore, Angelo, e lo rispecchia fedelmente e così pure la moglie, Patrizia, e le figlie; annullata quasi ogni distanza, l’autore è tutto nel personaggio, con la sua scrittura, con la sua vita, con la sua storia, in ogni fibra. Ma non si può chiamare Autofiction per varie ragioni – intanto la “piccola città” dove è ambientata gran parte della narrazione, non ha un nome, anche se non è arduo riconoscere la città di Fermo dove l’autore vive e ha sempre vissuto, altri particolari non collimano in senso identificativo – ma all’autofiction siamo molto vicini nello spirito. Non stringe nessun patto con il lettore, Ferracuti, non gli assicura che sia tutto vero e autentico, e verificabile, quello che leggerà, ma non si impegna molto a ricamare sull’intreccio, perché ha cose urgenti da dire che premono.

Questo, con la copertina danneggiata, strappata, proprio sul titolo e il nome dell’autore, uno sbraco che scende fino alla immagine, vedete, per la smania maldestra di aprire il pacchetto di Amazon, ma il libro parla proprio di uno strappo dell’esperienza, di un vuoto esistenziale, e di una ricostruzione e quindi forse quello strappo ha un valore simbolico aggiuntivo nella nostra lettura – dobbiamo ricordarlo, – la sovracoperta, color carta da zucchero, rappresenta in un acquerello forse, o in una foto ritoccata, una giovane coppia di innamorati, senza volto, seduti su un muretto basso, che si baciano, e in quel bacio si annullano in qualche modo, almeno nel senso pittorico, nel disegno. Lei ha una canotta rosa shocking sopra i pantaloni bianchi, lui, il giovane, è vestito in modo anonimo, una camicia scura aperta su una maglietta bianca qualunque, pantaloni scuri, scarponcini. Potrebbe essere un operaio. Le facce sono prive di lineamenti, dicevo.

Una copertina che non fa nulla per attirare l’attenzione, vedete, per essere accattivante, di certo non rappresenta un’esca per l’acquirente occasionale di libreria, ma coglie nel segno perché fa pensare a una serie di cose importanti che hanno molto a che fare con il romanzo: fa pensare intanto e soprattutto a quello strappo dell’esperienza che il romanzo illumina con spietata esattezza, proprio quel “vuoto” che hanno prodotto un prima e un dopo, nell’esistenza del protagonista.

Il romanzo è la storia di un matrimonio con la prima moglie dello scrittore, Patrizia, durata un ventennio, o poco meno, “dentro le piccole cose della vita familiare”, dice la bandella, un periodo lungo, fatto di luci e ombre, non diverso da tanti altri, di tradimenti, e disamore, di complicità politica, ideale, di rapinosa attrazione, ma anche scontri selvaggi, un lungo rapporto interrotto dalla morte precoce della donna. Ma i salti temporali, le diverse temperature emotive, psicologiche, del racconto, degli eventi permettono una sintesi: “Ero adulto e adolescente, un vecchio saggio e insieme un ragazzino ribelle, avventuroso, e questo mi piaceva moltissimo, mi riconoscevo completamente in quell’immagine bifronte, il vecchio che camminava lentamente, pensoso in una direzione, il ragazzino ostinato che corre controvento in quella opposta”.

Un libro scandalosamente sincero, mi verrebbe da dire, il cui fuoco è la malattia e la morte di Patrizia, raccontate in più riprese, dicevamo, sfalsate nei tempi, tornando a parlare anche con i medici di allora, a distanza di dieci anni, ormai dentro un nuova storia, una nuova vita, affianco a una nuova figura femminile dai contorni evanescenti, ritornando nella stessa casa, rivivendo nella memoria quelle fotografie sui muri, quella musica ascoltata allora, quelle infatuazioni artistiche, in una lettura di secondo grado, per un’ossessione di verità, diresti: “Quello che mi torna in mente è confuso come parti di un edificio dopo un’esplosione, anche il mio racconto sarà stato così, non c’è cosa più lontana dalla vita della trama di un romanzo, e io detesto le trame”. Così confessa l’autore a una dottoressa oncologa che seguiva Patrizia durante la terapie terminali, rivelandole il progetto di scrivere un libro su sua moglie, sulla sua malattie e morte, sulla loro storia, a distanza di 10 anni, rivivendo a poco a poco con lei e con noi quei momenti ormai consegnati alla memoria, ma non ancora del tutto elaborati, in quella fase in cui si rimettono insieme i pezzi, “quando le soluzioni di chemio entrano nelle sue vene… “, di quando informava le figlie al telefono dei risultati delle analisi, o sceglieva in un negozio una certa parrucca in previsione della caduta dei capelli che sarebbe sopraggiunta con la chemio, insomma quando la malattia dettava i suoi protocolli… ecco, il libro ci mostra tutto questo, come egli l’abbia dolcemente accompagnata fino alla fine – “l’unica cosa in cui pensavo di non aver fallito in tutta la mia vita era stata quella di proteggere mia moglie nel periodo della malattia, accompagnarla verso la morte”– ma ci mostra anche altri momenti del loro lungo ménage, di coppia, di famiglia, le litigate furibonde e devastanti, i propri scoppi d’ira violenti, con lei, con le figlie, le bestemmie, le colluttazioni, il lancio di oggetti. I vestiti di lei tagliuzzati con le forbici, i libri di lui malamente strappati e danneggiati con furia iconoclasta, da lei, per ripicca, l’abuso alcolico quotidiano di lui, la scrittura solitaria vissuta male, come senso di colpa e ansia di fallire, a anche il lavoro umile, frustrante, – il male di vivere in provincia, una provincia-mondo-prigione, raccontata con precisione sintetica (nel senso della brevità-essenzialità, ma anche nel senso filosofico) senza mai alzare narrativamente la voce, senza enfasi. Ma anche i viaggi, sono raccontati con questo spirito, sfruttando le sue qualità reportagistiche e ritrattistiche che si sono affinate negli anni – si veda la parte evocativa su Oslo alla ricerca del poeta fermano Di Ruscio, ma anche lo stringato e poetico resoconto da Giugliano, Bronx napoletano, dove lo scrittore era stato invitato assieme alla moglie che cominciava a avere i primi segnali della malattia, l’albergo lussuoso e panoramico a Positano, l’affaticamento della donna, il suo aspetto sciupato, sofferente, lui che si maledice per averla costretta a quello sforzo e intanto la rassicura, la rincuora.

Quindi che tipo di autobiografismo è quello di Ferracuti? Direi che è un autobiografismo verticale e sintetico. Anti cronachistico, e Anti narcisistico – l’autore non lavora per il proprio ego, offre un’immagine di sé stesso niente affatto edificante, scissa, violenta, autodistruttiva, infelice… Ma lasciamo parlare il critico Mario Barenghi che su Doppiozero ha fatto una estesa e lucida analisi del romanzo, eccone un estratto significativo: “Il tema funebre si accampa fin dall’inizio, con accorata perentorietà; – scrive il critico, – tiene il campo per molte pagine; si ripropone con forza nell’ultima parte, e suggella l’intero libro”. Ma La metà del cielo non è solo il resoconto di un lutto; è la storia del rapporto con una donna prima perdutamente amata, poi inopinatamente disamata, e poi amata di nuovo, poi drammaticamente perduta, e infine tormentosamente rimpianta. (Barenghi)

Che dire di più è meglio?

Beh, questo è tutto, se volete acquistarlo, e leggerlo… Ne uscirete arricchiti. Chi vuole può scrivere una microrecensione di questo libro dopo averlo letto. Alla prossima, e buon 25 aprile e buon primo maggio e buona primavera.

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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