Davide Grittani: “Questo è un romanzo sul ‘banco del pesce delle nostre miserie'”

L'autore di un romanzo sui segreti terribili che si possono nascondere dietro le pareti delle case borghesi

Immaginate una residenza di scrittura creativa e immaginate quindi una trentina di autori tra scrittori già formati e in formazione. Immaginate poi che si decida di leggere, non un testo classico oppure quello di un autore contemporaneo pubblicato con successo, ma il brano di un romanzo italiano ancora inedito. È quello che è accaduto in uno dei nostri incontri estivi quando Andrea Carraro e Lucia Pappalardo hanno deciso di raccontare La bambina dagli occhi di Oliva di Davide Grittani, che adesso è stato pubblicato dalla casa editrice Arkadia, nella collana Sidekar (diretta dal trio Ivana e Mariela Peritore e Patrizio Zurru). Grittani è un autore conosciuto, al suo quarto romanzo, con un’intensa attività di animatore culturale, ma in ogni caso la lettura dei brani della sua opera è avvenuta di fronte a un pubblico molto esigente. Il risultato è stato così convincente, con alcuni momenti anche forti, che mi è venuta la voglia di rivolgergli qualche domanda per la nostra tradizionale intervista domenicale.


La bambina dagli occhi d’oliva ha avuto l’approvazione di molti lettori, la casa editrice lo fa accompagnare da una serie di memo con commenti di autori noti, da Andrea Carraro a Margaret Mazzantini a Furio Colombo a Valeria Viganò, ecc.. Te l’aspettavi?

Lavoro molto per condivisioni, per affinità. Quando mi scelgo degli alleati, anzi veri e propri complici letterari di cui mi fido ciecamente, attraverso di loro cerco di capire a quale grado di consapevolezza è arrivata la mia scrittura. Andrea Carraro l’ho ritrovato dopo molti anni, anche se per me è sempre stato uno di quegli scrittori che un Paese civile dovrebbe difendere come un dono. Margaret Mazzantini invece l’ho cercata io, perché scrivo storie a incastro molto simili al suo fatalismo: lei è stata generosa, avrebbe potuto ignorarmi – come fanno moltissimi dei nostri migliori scrittori nei confronti dei giovani che chiedono loro consigli – invece è stata straordinaria. Furio Colombo mi segue dal precedente romanzo La rampicante, che ha presentato a Più Libri Più Liberi 2018 con un incontro che resterà nella mia vita per sempre. Mentre Valeria è una donna fortissima, un talento quasi messo a tacere e che io – con una collana di reportage narrativi che si chiama Dispacci Italiani – ho ripescato con convinzione, perché Valeria può dare ancora tanto alla narrativa. E poi via via tutti gli altri. Quando persone alle quali non devi niente si avvicinano a te con curiosità e interesse, lontani dai blurb che gli editori impongono per libri che non varrebbe la pena nemmeno comprare, vuol dire che il tuo lavoro può ritenersi degno dei tanti sacrifici fatti. Fateci caso. Sono tutti autori che hanno detto qualcosa di importante verso la fine degli anni Novanta, perché io sono un “autore inattuale”, mi sento “uno del Novecento”. Stilisticamente poso in opera le mie mattonelle con quella idea lì, con quella procedura di lavoro. Oggi sono un “fuori contesto”, uno che di fronte alla miseria narrativa contemporanea – fatta passare per modernità – non può che sentirsi straniero.

Nella nostra lettura nella residenza di scrittura ci siamo fermati prima di una scena che poteva essere troppo forte da leggere in pubblico, quella – chi voleva – poteva leggerla da solo. Hai avuto la sensazione che stavi scrivendo qualcosa di estremo che poteva essere disturbante?

È la scena in cui il protagonista del romanzo, Sandro Tanzi, poggiando le mani alla porta della casa sopra la sua, attraverso l’immaginazione cerca di descrivere come potrebbe essere andata la violenza sessuale inferta ad Angelica. Me lo dicono tutti, è una scena così forte che in molti non ce l’hanno fatta a leggerla. Ma era – anzi, la ritengo ancora – una scena necessaria. Indispensabile innanzi tutto a me, perché scrivo sotto “stato di indignazione”: non riesco a concepire una scrittura pacificata, potrei farlo col giornalismo ma la narrativa non può contenere la stessa equidistanza. La narrativa dev’essere scrittura indignata, una forma d’arte disgustata dall’inquadramento commerciale e stilistico che vorrebbero imporle. Il risultato è che, chiunque abbia letto quella scena, mi ha detto che ha fatto fatica ad andare avanti: ecco, per uno scrittore si tratta di un sentimento importante da suscitare. Direi che il libro, inteso come istigazione alla riflessione, è arrivato.

A un certo punto scrivi: “A che serve questa verità così dura da passare il legno, perforare la carne e raccontare nei dettagli cos’è successo?” Ecco, a cosa è servito scrivere questa storia?

A convincermi ancor di più che c’è una parte di questo Paese che preferisce farsi anestetizzare da storie rassicuranti, conciliatorie, a lieto fine. Scrivere questa storia mi è servito a conoscere centinaia di persone, uomini e donne che quando erano bambini hanno subito violenza: dai loro genitori, dai loro nonni, dai vicini di casa. Il loro dramma non esiste per nessuno, si portano dietro questo fatto come una colpa di cui sono paradossalmente responsabili. Ecco, l’indole cattolico-conservatrice di questo Paese ha prodotto una sottocultura auto afflittiva in cui i destinatari delle violenze diventano artefici e ispiratori delle stesse. È incredibile come la nostra tendenza all’indifferenza riesca a scavare intorno a loro un fossato, a isolarli e renderli in qualche modo innocui. In un Paese degno di questo nome, queste persone dovrebbero fare i testimonial di campagne di sensibilizzazione da mostrare nelle scuole. Invece noi li ghettizziamo, li lasciamo a tempo indeterminato nel “ripostiglio della società”. Quindi sì, assolutamente sì. La verità serve sempre, per chi vuol accorgersene la verità serve sempre e ad ogni costo.

Mi sembra che uno dei temi del romanzo sia la corruzione che spesso va insieme alla ricchezza, che diventa quasi un veleno, ti sembra giusto?

No, non è un romanzo sulla “Roma Capitale” che cinema, romanzetti e fiction hanno cristallizzato come il male del Paese, mentre nei paesini di provincia due figlie e il loro fidanzato ammazzano una donna solo per prenderne un po’ di soldi. Questo è un romanzo sul “banco del pesce delle nostre miserie”, sulla postazione merceologica in cui tutto lo schifo di cui disponiamo viene esposto come le anguille. E come le anguille si annoda, si attorciglia, rendendo indistinguibile questo da quello, buoni dai cattivi, avidi da impavidi, la corruzione (per l’appunto) dalla caducità del male. Questo è un romanzo in cui le categorie umane più diverse si cercano, tentano di stabilire un contatto … e ciascuno ci riesce coi mezzi di cui dispone.

Che Roma è quella che racconti?

Una città di cui nessuno è degno, a cominciare da me. Una città verso cui bisogna avere talmente tanto rispetto che, prima di nominarla, bisognerebbe pensarci su dieci volte. Invece l’errore antropologico sta qui, lo stupro continuo di Roma consiste nella facilità commerciale con cui il mondo intero le si rapporta, consiste nella ferocia con cui l’umanità tenta di strapparle in tutti i modi un feticcio. Come dire, possiamo staccarne un pezzo: eccolo, allora è nostra. Io ci ho messo una storia, una storia il cui incipit mi è stato sussurrato alle orecchie dal grande Dario Argento. Ma non cito mai il suo nome, questo è più che pudore. È rispetto, timore reverenziale. Quello che nei confronti di Roma non prova più nessuno, perché al contrario sono tutti impegnati “a tagliare una fetta di porchetta”. È di tutti, il modo più breve per dire che non è mai stata di nessuno.

La memoria terribile che riemerge nella famiglia Tanzi secondo te è un caso limite, oppure immagini che ci siano molti più segreti di quelli che conosciamo, nascosti dietro le pareti.

Quando ho fatto dei lavori di ristrutturazione nella casa in cui vivo oggi con la mia famiglia, sono emerse le scritte di una ragazza rivolte a quello che credo sia stato il suo amore. Beh succede, ma quello che ignoriamo è la dimensione sottocutanea delle nostre vite. Pensiamo di avere una dimensione sociale, necessariamente aperta a tutti. Quindi una vita più discreta, in cui accogliere solo persone fidate e gli affetti più cari. Ma esiste anche una dimensione sottocutanea, una pelle che è stata sovrascritta da chissà quante mute. Ecco, sotto questa pelle c’è il diario con cui ognuno di noi è continuamente costretto a fare i conti. Anche di questo nessuno parla, ma quello che succede nelle famiglie italiane spesso sarebbe degno di romanzi di analisi sociologica… mentre noi ci limitiamo a scrivere romanzi sulla nobiltà di alcune famiglie o dinastie, sulla loro evoluzione e non sulle loro imperfezioni. Mi pare un’altra occasione persa. Non vogliamo leggerci, non riusciamo a voltarci per raccogliere i nostri rifiuti. Ci affascina il gossip che sta dentro la famiglia Agnelli, una delle più potenti del mondo. A me piacerebbe fare la radiografia di quelle relazioni, per scoprire quanto odio riesce a nascondersi sotto la favola della felicità e del benessere.

Il tuo protagonista scrive: “nel posto in cui sono nato e cresciuto, dove tutti hanno paura a voltarsi di schiena”. Qual è questo posto?

Ho scritto tutto il romanzo con una strada ben precisa in testa, quella che mi è stata indicata da Dario Argento quando mi ha donato l’incipit di questa storia. Ed è via Crescenzio, che mi dicono irriconoscibile rispetto a trent’anni fa. E anche più misteriosa, di quando la borghesia romana la elesse a vaso comunicante tra Lepanto e piazza Cavour. Il salotto adesso si è sdrucito, malandato. Ma proprio per questo, a me è parso ideale per poterlo raccontare.

Hai adottato istintivamente la prima persona oppure è stata una scelta legata alla storia che volevi raccontare?

Preferisco di gran lunga i racconti al passato remoto, con l’uso dei congiuntivi e condizionali che mi permettono un governo filologico molto più consapevole. La prima persona come “io narrante” è una specie di plotone di esecuzione, non puoi sbagliare. Sei tu contro il Lettore. Lo prendi per il bavero e lo trascini dentro le tue pagine, nessuna distanza, nessun distacco. Forse, dico forse, per il tipo di romanzo che avevo in testa, era la soluzione migliore. Personalmente credo proprio di sì.

Il romanzo è dedicato a Dolores O’ Riordan. Perché?

Io non sono nessuno e il mio lavoro passa con molta fatica sui grandi giornali e per le tv, ma personalmente mi sembrava un modo – tutto personale – per chiederle scusa. Per dirle che questo mondo ha accolto il dono del suo talento senza meritarlo. Un modo per dirle che purtroppo, come spesso succede ai grandi, la sua vita è passata con fretta e confusione. E che la sua feroce infanzia, fatta di abusi e violenze, non è stata colpa sua ma frutto di un’aberrazione (anche qui… cattolica, conservatrice, afflittiva e non costruttiva) di cui dovrebbero vergognarsi in molti. Nel romanzo dico questo con estrema, almeno lo spero, precisione. Dico “che i danni causati dalle preghiere sono molto più consistenti dei danni causato dall’odio”. Voleva essere un risarcimento, un piccolo e trascurabile risarcimento nei confronti dei quei bambini ai quali è stato commesso lo stesso abuso, lo stesso crimine.

Ci hai parlato di Dario Argento e c’è nel romanzo un disegno infantile che ricorda una scena di Profondo rosso, un film che citi direttamente, la tua scrittura ha dei passaggi molto cinematografici. Che rapporto vedi oggi tra letteratura e cinema?

Il cinema attinge continuamente dalla letteratura, come se ne avesse ancora una grande fiducia. Forse il rapporto si è capovolto, ribaltato. È il cinema a stimolare molto di più la letteratura, non il contrario. La letteratura sta cedendo progressivamente alle banalità e alle caducità tipiche dello spettacolo, perdendo il suo senso profondo e la sua sacralità. Sta diventando show, e la cosa peggiore è che ne è perfettamente consapevole. Quando la trasfigurazione commerciale del libro, da materia di riflessione in materiale da evasione, sarà compiuta, il cinema dovrà fare completamente a meno della letteratura e in qualche modo sarà costretto a reinventarsi. Ma oggi, almeno per me, il rapporto è capovolto. Il cinema sta ancora provando a individuare slanci di coraggio, a intercettare territorio di sperimentazione. La letteratura sembra aver smarrito la missione, sembra aver confuso il palcoscenico. Mentre oggi si può dire che escono ancora dei bei film, in editoria escono molto più markette industriali che opere originate dal talento.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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