“Storia di Shuggie Bain” di Douglas Stuart (Mondadori)

Non si può non amare questo minuscolo cavaliere senza armatura, dolcissimo e tormentato

Vincitore del Booker Prize 2020, uno struggente romanzo di formazione, dove l’umanità che vive sulle pagine è un’umanità triste, con pochissime risorse, e nessuna speranza.

Negli anni 80 a Glasgow si iniziano a sentire gli effetti distruttivi della crisi. Le fabbriche e i cantieri chiudono, la città è attraversata come una ferita da gru che svettano in un cielo color cartone, immobili, e dappertutto è ancora profondo il conflitto mai del tutto sopito tra cattolici e protestanti.

In questa città vive il piccolo Hugh, soprannominato affettuosamente Shuggie, con il padre, Shug, tassista, la madre, Agnes, e i due fratellastri molto più grandi di lui, frutto del primo matrimonio della madre. La numerosa famiglia è ospitata dai genitori di Agnes, che non hanno approvato il suo divorzio dal primo marito cattolico per sposare un protestante bugiardo e fedifrago.

Agnes non si era accontentata di una vita familiare e pensava con il nuovo marito di rivivere nuove emozioni, che di fatto, dopo qualche anno, sono diventate una serie di soprusi e scenate. Quando il padre di Shuggie li porta a vivere in una zona fitta di cattolici, nelle case popolari, in una casetta minuscola e malridotta, uguale a tutte le altre della zona periferica, in mezzo al nulla, la famiglia si sfalda.

Il trasferimento infatti, è stata l’occasione per Shug di smetterla di sopportare Agnes e i suoceri, che la spalleggiavano, e, come lui stesso dichiarerà “volevo solo vedere se venivi con me”. Insomma Agnes, priva di sostegno economico, è costretta a vivere di sussidio e questo malessere aumenta la sua già potente passione per la birra, fino a sfociare in una malattia. Leek, il fratello maggiore, si chiude a riccio, limitandosi a comunicare l’indispensabile, la sorella Catherine si sposa, va a vivere in Sud Africa e chiude ogni contatto con la madre difficile.

Il peso del legame con la madre plasma tutta la vita di Shuggie, che da subito, nelle case popolari viene etichettato “strano”, emarginato e bullizzato. Nessuno sopporta la sua gentilezza, la sua proprietà di linguaggio, il suo non essere né cattolico, né protestante. Tutto è squallore attorno a lui, dalla città intrisa di nebbia metallica, agli uomini che si accompagnano alla madre, alle sue compagne di bevute. Shuggie soffre la fame, perché gli rubano i buoni per il pranzo, e perché la madre spende i soldi del sussidio in birra al posto del cibo. Non può fare a meno di amarla, nonostante tutto, anche quando la va a cercare in pub fumosi ed equivoci e viene molestato da tassisti pedofili. Shuggie spera che un giorno lui sarà normale, e la madre non sarà più un’alcolizzata.

Con l’inizio dell’adolescenza la sua stranezza si colora di una nuova sensazione: guarda i ragazzi e non è interessato alle ragazze. Troppo confuso per dare un nome a questo modo di essere, inizierà ad accettarsi con qualcosa che somiglia alla rassegnazione.

Non si può non amare questo minuscolo cavaliere senza armatura, dolcissimo e  tormentato da una madre nevrotica e alcolizzata, che lo ama nel solo modo che si può permettere, con rabbia e senso di possesso. Lui, per Agnes è l’unico rimasto, l’ultima risorsa umana che la trattiene nel mondo. Dovunque si respira l’aria pesante di carbone e di polvere, muffa verdastra che incrosta le pareti delle case, umidità che disegna brutti sgorbi sul soffitto. E il sorriso timido di Shuggie che continua a provare a vivere. Come può.

Leanne raddrizzò la schiena, con i capelli lucenti come se avessero l’effetto bagnato, il volto più calmo e gentile. Tra loro soffiavano le folate di aria fredda provenienti dall’autostrada. Shuggie lasciò rotolare lungo la massicciata un ricciolo di capelli di Leanne e all’improvviso si sentì solo, con la voglia di sedersi sulle ginocchia della madre come faceva da piccolo.

Leanne si girò a guardarlo oltre la curva della spalla. Nella luce dei fanali Shuggie si rese conto di quanto fossero belli i suoi occhi, non solo marroni ma screziati di oro, di verde, di un grigio triste e piatto. In quel momento ebbe la certezza che non sarebbe riuscito a mantenere la propria promessa. Aveva mentito ad Agnes così come Agnes aveva mentito a lui a proposito dello smettere di bere. La madre non sarebbe mai riuscita a tornare sobria e lui, seduto al freddo accanto a un’incantevole ragazza, capì che non si sarebbe mai davvero sentito un ragazzo normale.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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