Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4
Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
In piedi dietro al vetro opaco Papille guarda il lungo bancone della pasticceria Grilli. Il tipo, il proprietario, bassotto con grossi occhiali, si muove come un gallerista d’arte. Volteggia tra pan di Spagna, cornetti e creazioni mignon. Le muove di pochi millimetri sfiorandole appena.
Sarebbe stato un uomo interessante, pensa Papille, ma puzza di quell’odore di élite che un paio di recensioni sul Gambero Rosso cuciono su queste anime tutte ego. Da quanto tempo è pasticcere? Cinque, dieci anni? Quanti ricevono riconoscimenti ma hanno il locale sempre mezzo vuoto? Cosa è un riconoscimento e chi è la persona che lo riconosce? Quali interessi ci sono in gioco?
Papille ricorda di non averlo mai stroncato del tutto. I suoi dolci, pretenziosi, non sono da buttare via. Guarda l’orologio. Il treno è in partenza. La pasticceria si trova a pochi minuti dalla stazione di Milano. Con il referto del medico sotto al braccio, decide di non attardarsi.
– La peggiore delle ipotesi è che i polmoni collassino per via delle lesioni riportate, ma per ora stiamo a vedere monitorandoli. Se tossisce sangue di nuovo, mi chiami – Ha detto così il medico da quella scrivania minimale tutta riproduzioni di plastiche facciali. Papille si è alzato ringraziando. Al medico ha detto che sarebbe partito per un po’ di riposo.
Vede Grilli parlare con l’unica cliente all’interno del locale. Il pasticciere piega in avanti il busto in segno di riverenza. Finta, intuisce Papille. Ama essere lusingato ma ama far credere di non amarlo. Prendono un pasticcino, fingono di morderlo e si scattano una foto con il telefono. Il pasticcino, a occhio un lampone su biscottino di cereali e ganache di cioccolata, cade a terra rovinando sul marmo del pavimento.
Il freccia bianca per Potenza parte dal binario dodici. Papille prende dalla tasca un piccolo rombo di liquirizia “Amarelli”. Ne mangiava a decine prima dell’incidente. Lo guarda. La superficie è liscia, scivolosa sui polpastrelli; ricorda con precisione il sapore di melassa, l’estratto della radice e la bassa percentuale di cloruro di ammonio. Lo rimette in tasca, respira poi lo riprende e lo mette in bocca. Strofina il rombetto sul moncone di lingua, sul palato, lo succhia e cerca il sapore, anche solo una nota fresca di liquirizia. Sbuffa, finisce con l’ingoiarlo mentre si allontana dalla vetrina. All’interno un ragazzo pulisce quello che resta del pasticcino smembrato.
Avrebbe potuto essere più duro con Grilli quella volta. Quella sua spocchia, quel suo creare dolci osannati solo perché privi di termini di paragone. Utilizza senza dubbio fantasia negli abbinamenti, Papille sospira ricordando l’analisi di alcuni suoi lavori: Sambuca, aneto e pasta frolla, divertenti ma piatti al palato per via della delicatezza dell’aneto e la secchezza della sambuca o l’altro cavallo di battaglia alici, melanzana e polvere di cacao su mini bignè vegani. Interessante l’amaro del cacao abbinato alla polpa di melanzana stracotta, le note amare si dischiudevano subito dopo il dolce ma i bilanciamenti all’assaggio risultavano rudimentali, un dolce smielato su una pasta frolla poco umida. L’oggettivo estro, inoltre, spinge Grilli lontano dall’umiltà del senso ultimo della pasticceria. Papille lo recensì con fredda distanza, ma senza infierire. Poi quella fissa del km zero. Come se la natura nel resto del mondo non fosse tutta dello stesso valore.
La critica comune invece osanna Grilli per inventiva mista a professionale semplicità. Ma dove ci sono interessi, c’è cordialità. Pensa Papille mentre si allontana per non affogare nei ricordi.
Il binario brulica di gente. Papille sale sul vagone. Carrozza due, posto ventidue A. Lo trova e lascia la sacca prima di andare in bagno. Niente più completi su misura, garofano nel taschino, trolley o baffi. Indossa un paio di jeans e una T-shirt bianca, un maglione e una giacca.
Il grande Papille ridotto alla normalità. E chissà quale abisso mi aspetta. Pensa.
Torna al suo posto. Davanti a lui siede una coppia. Il treno parte. Lei è magra più dell’idea classica di magrezza. Papille le guarda i polsi pelle e ossa, le labbra ritoccate e la scollatura prorompente di silicone. Ha il viso scavato, i denti bianchi distano pochi millimetri gli uni dagli altri.
La ragazza incrocia il suo sguardo, Papille lo sostiene, lei guarda fuori dopo pochi istanti. Dal collo le spuntano vene violacee ben definite.
Il compagno, o forse il fratello o l’amico, tira fuori un dolce mono porzione confezionato nel packaging della pasticceria Grilli, lo passa alla ragazza.
Lei punta il telefono sul viso, apre la confezione, estrae il mignon e finge di dare un morso. Le braccia secche si muovono macchinose.
Papille la immagina infilarsi uno spazzolino in gola per vomitare.
La ragazza si specchia nel cellulare aggiustandosi i capelli, unisce le labbra e manda un bacio alla fotocamera. Le mani scheletriche sembrano lunghe zampe di un ragno avvinghiato all’iPhone.
Papille abbassa lo sguardo, appunta sul suo taccuino qualche frase. Il treno scorre in direzione Potenza.
Papille scrive: “Il corpo non è un oggetto da usare per uno scopo.” Sottolinea due volte.
“Io combatto il cibo inteso come oggetto di moda, come demone interposto fra sé stessi e il soddisfacimento di un desiderio velleitario. Il cibo è nutrimento e qualsivoglia significato diverso da esso è da condannare.”
Guarda fuori dal finestrino. Il paesaggio scorre veloce. Pensa a Grilli, ai suoi mignon da quindici grammi a tre euro che non potrà mai più stroncare.
La ragazza continua a fotografare se stessa, poi fotografa il dolcetto e dice alla telecamera schiudendo le labbra: – Merendina dal migliore Chef pasticcere di Milano!
“Chef Pasticcere” ripete Papille dentro di sé.
Il treno sfila. La Basilicata lo attende, i campi lo attendono.
– Merendina time! – Ripete la ragazza. Poi morde il pasticcino.
Dopo l’ultima foto, ripone il telefono. Sputa la poltiglia morsa sul palmo e incarta il mignon, accartoccia tutto e lo spinge nel piccolo vano per i rifiuti.
Papille socchiude gli occhi ed espira. Vuole chiederle perché abbia scelto di ridurre il suo corpo, il cibo con cui gioca in questo stato. Vorrebbe darle uno schiaffo forte da farsi sentire in tutto il vagone ma l’imbarazzo dovuto alla sua situazione lo inchioda muto al sedile.
Potenza è più vicina. Fuori dal treno sfilano catene montuose bagnate da una fitta pioggia. Quei rilievi difendono vallate e colline, campi in cui l’abuso di manodopera è ben celato, non è una terra facile. Pensa Papille.
Ma c’è tempo per preoccuparsi. Reclina di due tacche il sedile per riposare, in una mezz’ora sarà alla stazione di Potenza centrale.