“Bellissima” di Yasmin Incretolli (Pidgin)

In questa storia si narra un’umanità dolente, viva e vitale, malata e indurita, crudele, che ha abbandonato la Speranza in una casa disfatta, la caduta di Icaro con le ali che luccicano al sole, prima dello schianto.

Il paesaggio del romanzo è una Roma notturna, densa come sangue rappreso, una estrema periferia, un luogo emotivo, oltreché fisico, di disagio e solitudine. In questo mondo, abitato da spacciatori, scambisti, ragazze che si esibiscono nei night, figli e figlie di un secolo che li ha sputati via ancora mezzo digeriti, le parole di amore e cura bloccate in gola, ostruite dalla polvere, dalla droga, dal sudore chimico e dall’alcool, vive Irina, per tutti Neve, italiana con mamma romena. Neve ha avuto una infanzia e adolescenza molto difficili, nel mondo in cui abitava per lei c’erano solo occhiate di scherno, spinte e atti di bullismo. Neve è nata con delle labbra molto sottili, una stringa, e non si è mai sentita bella o desiderabile. Cresciuta con poco, in mezzo a una famiglia triangolare e monolitica, dove l’amore è fatto di violenza e botte, appena ha avuto un po’ di soldi ha cercato, sui siti web nascosti, un medico, o qualcuno che si è spacciato per tale, che le togliesse il suo difetto. Perché lei vuole essere bellissima. L’operazione di riempimento delle labbra non è andata bene, il prodotto usato le ha procurato un’infezione e adesso, portata d’urgenza al pronto soccorso, ha un taglio sulla faccia, uno spacco sul labbro, un arzigogolo a monito di una sorta di hybris. Ha il viso deturpato e una difficoltà permanente ad articolare certe sillabe, come se avesse un labbro leporino. Nel locale dove si esibisce, insieme all’amica Peach, conosce Loris, che presto diventa l’amo. Loris ha un’eterocromia, occhi di colore diverso, e già questo è il segnale di diversità che affascina Neve. Per Neve, Loris diventa la proiezione personale dell’amore: sofferenza, gelosia, promesse.

Il loro è un amore che sa di comprensione delle reciproche ferite, nato tra due persone escluse, deprivate degli affetti elementari, cresciute nella solitudine e nella rabbia. E Loris di rabbia ne ha tanta e la scarica sul corpo di Neve.

L’autrice entra in una serie di zone oscure, paludose, arriva al fondale basso di quello che è il vicolo cieco dell’amore, quello che ti fa sopportare le botte, i segni sul corpo e i lividi e il senso profondo di violazione. Neve ha un buco nell’anima, la fame di attenzioni e d’affetto e, a causa dello sfregio che le hanno fatto per salvarle la vita, deve accontentarsi di amori usurati. Neve sopporta ogni cosa da Loris, inizia a fare uso di eroina per sentirsi vicina ai suoi deliri, a condividere con lui il buco, i corpi mappe asimmetriche di siringhe e cicatrici cangianti, dal rosso purulento al viola traslucido al giallo mattone, un caleidoscopio di ferite di guerra da esibire insieme ai tatuaggi.

Neve nei suoi vent’anni brucia soldi, si esibisce per uomini affamati delle promesse nascoste nel suo corpo spigoloso, reso concavo dalla mancanza di pasti regolari, inghiotte aria viziata e malconcia dalle macchine in corsa, nei bagni in cui si rifugia per avere una tregua dai fiati guasti che le alitano addosso, dalle mani che la frugano. Quando è sul palco lei è esattamente come vuole apparire: “Bellissima”.

È un’umanità dolente, quella raccontata, viva e vitale, malata e indurita, crudele, che ha abbandonato la Speranza in una casa disfatta, l’odore di cibo andato a male che aleggia ovunque. E, insieme al senso catastrofico di disfatta e perdita, brilla, intenso, il fascino solipsistico dell’autodistruzione, la caduta di Icaro con le ali che luccicano al sole, prima dello schianto.

Tutto avviene in una manciata di mesi, un tempo sincopato e rotto come la lingua usata dall’autrice: neologismi e onomatopee, sullo sfondo sempre il buio, anche nei rari momenti in cui le scene si svolgono di giorno, con la luce. La lingua della narrazione si rarefà e deflagra, produce una sorta di fame d’aria, un’ansia di salvezza, un bisogno di fuga. Tutto è ridotto all’osso, diminuito come le vite messe in scena, vite minuscole, di persone che non contano, e che pure urlano il loro bisogno di essere visti.

Tu leggi questo romanzo e la sensazione che ne trai è quella di sentire uno specchio rotto sotto la lingua, i pezzettini di vetro che ti tagliano dentro e lasciano uscire minuscole stille di sangue.

 

“Devo afferrare qualcosa per evitare d’essere tirata via dalla rimanenza di corpo che mi strapiomba verso terra. Ripiegandosi il ventre sottolinea in maniera innaturale la zona bikini. Mi distendo vicino un Loris in pieno flash. Il Tony ha regalato petardini di coca e non ce n’è mai abbastanza. Ne secco la metà mettendoci bevendoci sopra la Stolichnaya rimasta. È come annusare il dorso e sentirci dentro un certo mondo. Capelli con odore di tutte le serate passate, dei bagni delle discoteche, di muretto, di mezzi pubblici, di posti strani, vicoli bui e maleodoranti.

Per il primo buco ci vogliono venticinque milligrammi. Sulla stagnola sono di più ma sono ancora viva.

Non è bastarda come tutti dicono, anzi è mia amica”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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