“Purgatorio” di Ilaria Palomba (Alter Ego)

Questo romanzo ci mostra che siamo tutti e tutte sopravvissuti, noi che capiamo quanto sia facile essere feriti. Eppure, la nostra debolezza può essere la nostra rivincita.

Capita di avere momenti di buio così totale e immenso, da pensare di non poter più aggiungere una sola parola alla propria storia di essere umano. Capita di sentirsi estranei al proprio tempo e spazio, incapace di toccare qualcuno. Capita di sentire, con il dolore che diventa uno stato d’animo cronico, di non avere più la speranza di vedere miglioramenti. È quello che succede a Ilaria, che in un inizio pomeriggio di maggio, nella luce già calda, inghiotte pillole per stordirsi, scrive un post secco e turbato sui social e si lancia giù dal quarto piano del suo palazzo residenziale.

Quello che succede è che viene soccorsa in tempo, viene operata d’urgenza, e incredibilmente si riprende, sopravvive alla catastrofe scomposta del suo corpo frantumato, esploso, con una lastra di titanio in L2 e una lesione parziale del midollo spinale. Nei giorni che seguono il suo ricovero al San Giovanni, e poi al CTO in unità spinale, Ilaria riprende a cercare la speranza, a ritrovare le parole che credeva seccate dentro l’anima distrutta. Le poesie e i racconti delle persone ricoverate insieme a lei, tutte disilluse eppure piene di rabbiosa voglia di vivere, diventano immagini scritte agli occhi del mondo e ai suoi stessi occhi. La rabbia di sentirsi disabile, con dolori cronici e articolari, la motilità ridotta e il rimprovero, a volte celato, a volte detto apertamente, di chi la guarda vengono tradotti in questo libro, che è un agrodolce, straziante tentativo di comunicare. Senza schermi, esposta, la scrittrice narra di sé, di come è sentirsi sempre inconsistente, o violata, o fuori posto negli ingranaggi di un mondo che vuole mortificare l’unicità, ridurla a sistema compresso e controllabile. Questo libro è il tentativo di mettere ordine nelle macerie, di fare chiarezza in un grande amore ridotto in cenere, ex marito amato e perduto che forse si cela dietro le fattezze di un contatto fake di nome Hubert Melville (una crasi forse tra Humbert Humbert e Herman Melville) e poi la promessa di una nuova relazione, il corpo arreso alla vergogna e al desiderio di essere di nuovo voluto.

Purgatorio è uno stato d’animo di chi vigila, scampato all’Inferno ma non ancora, e forse mai, pronto per la serenità del Paradiso, dove i glicini sono sempre fioriti, nessun piatto viene lanciato a terra e chi è più fragile viene generosamente compreso e accettato.

Purgatorio è la nostra condizione guizzante di esseri che cercano, sempre con la gola arsa, le braccia ferite che annaspano, con i polmoni in perenne fame d’aria.

Insieme alla voce di Ilaria ci sono quelle dolenti, tenere, aggressive, disturbanti e consolatorie dei medici e del personale ospedaliero che la vede progredire, muovere i passi esitanti e più sicuri nel corso del tempo, le persone ricoverate con lei, che con lei condividono un pezzo di tempo. Purgatorio è la storia di chi, in quel confortevole bozzolo al CTO, vive in disparte, e su quanto sia difficile riproporsi di nuovo al mondo, una volta usciti fuori.

Siamo tutti e tutte sopravvissuti, noi che capiamo quanto sia facile essere feriti, le crepe mostrate quasi con orgoglio, perché non sappiamo essere altro che questo: mancanti. Eppure, la nostra debolezza è la nostra rivincita, il nostro rivendicare un posto nel mondo, piccolo forse, ma nostro.

I nostri corpi feriti, le nostre anime resilienti continuano a raccontare di possibilità, di speranze, perché “un minuto intero di beatitudine è abbastanza anche per l’intera vita di un uomo”, come conclude Dostoevskij nelle sue Notti Bianche.

 

“Ho incontrato le persone che mi hanno soccorso il 3 mag­gio. Dicevano che non urlavo, non respiravo, ma a un certo punto il mio corpo si è scosso in convulsioni. Non hanno chiamato loro l’ambulanza, era lì per altri motivi, ma pro­prio lì, su quella strada. A proposito degli uomini che mi hanno visto per primi: uno di loro era solito parcheggiare il motorino nel punto esatto dov’ero caduta, quel giorno per caso l’aveva lasciato qualche metro più in là. L’altro aveva l’officina su quel lato della strada. Hanno detto che vedermi in piedi era per loro un fatto impossibile al quale nessuno avrebbe creduto se avessero deciso di raccontarlo. Mi sono ricresciuti i capelli, non credevo potesse accadere. Mi sentivo ormai condannata ad averne pochi e sfilacciati.

Mi ritrovo a scrivere negli ospedali, come scrivessi sui muri l’ultima frase. Scrivi la parola scrivere, cancellala. Non si scrive altro che la scrittura. Quando entri nel circuito devi aderire a un piano, l’ospedale è il ventre del Leviatano, non si può far finta di essere altrove, non si può neppure presu­mere di uscire, un ospedale è uno spazio liscio tra terra e cielo, un Purgatorio”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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