A William Faulkner il whisky era sempre piaciuto, ma il suo drink preferito era il Mint julep. Versava in un boccale di metallo, rigorosamente gelato, una robusta dose di Bourbon, aggiungeva un cucchiaio di zucchero, un paio di foglioline di menta sminuzzate e ghiaccio.
Gli piaceva bere mentre scriveva, anche se questo creava qualche inconveniente.
Nel 1937 un suo traduttore gli aveva chiesto spiegazioni riguardo una frase per lui incomprensibile: Faulkner era scoppiato a ridere, e gli aveva risposto che non ne aveva la minima idea.
“Io scrivo di notte”, aveva detto, “e il whisky mantiene in testa così tante idee che poi non riesco a ricordarle la mattina seguente”.
C’era stata, poi, quell’intervista ormai celebre per The Paris Review: il giornalista gli aveva chiesto cosa dovessero fare coloro che non capivano quello che lui scriveva anche dopo averlo letto due e tre volte. Un po’ sorpreso dalla domanda, si era limitato a rispondere: “Che lo leggano quattro!”
“Gli strumenti di cui ho bisogno per il mio mestiere sono carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky”: altra frase, questa, che aveva riscosso un certo successo.
Poi nel 1949, era arrivato il Nobel e da quel momento aveva cominciato a tenere conferenze in molti Paesi, diventando una specie di bandiera americana itinerante.
Il Dipartimento di Stato aveva diramato direttive precise per gestire la sua dipendenza dall’alcol ed evitare incidenti diplomatici, dalle belle ragazze fatte sedere in prima fila per tener desta la sua attenzione fino a veri e propri agenti di scorta che gli impedivano di avvicinarsi al tavolo dei cocktail.
Tutto inutile: se voleva, poteva eludere ogni sorveglianza e rinfrancarsi con una bella bevuta.
Adesso era tornato a casa, e poteva prepararsi un Mint julep con tutti i crismi.
“La civiltà è iniziata con la distillazione”, mormorò, mentre sminuzzava tre piccole foglie di menta.
Bibliografia:
William Faulkner, L’urlo e il furore, Mondadori;
Wiliam Faulkner, Mentre morivo, Mondadori.