La valle dei fiori è un posto che esiste nella Groenlandia orientale, un pezzo di tregua tra la montagna e la città, un luogo dove riposare. La protagonista del racconto, una ragazza inuit, trova questo luogo particolare nel viaggio in cui accompagna la sua fidanzata nel doloroso percorso di comprensione e di accettazione del suicidio della giovane cugina di quest’ultima. Questo suicidio è solo l’ultimo di una serie di morti autoinflitte, la cui tragedia viene spesso inghiottita da lungaggini burocratiche e difficoltà delle strutture sociali e sanitarie di assistere una parte sempre più disperata della popolazione, specialmente tra gli adolescenti.
Il nome della protagonista è un segreto che non ci viene mai svelato, quello che sappiamo di lei sono cose che riguardano, nel profondo, tutti noi. Senso di inadeguatezza, difficoltà di inserimento nella società, appartenenza a un gruppo etnico che in Danimarca è considerato di serie B, mancanza di un linguaggio adatto a tradurre in parole la frustrazione e l’estraneità verso il suo stesso corpo. Inoltre, il suo coming out ha suscitato, alle scuole medie, una reattività ostile da parte dei compagni di scuola, in un mondo dove il buio invernale genera ansia e depressione, e ogni forma di sensibilità più estrema viene etichettata come strana.
La borsa di studio che le consente l’accesso a una buona Università danese, e a tutta una serie di facilitazioni, in realtà le rende evidente quanto sia diversa dai suoi coetanei. Lei è molto grossa e ha la pelle così scura che sembra sporca, in un universo di biondi, alti e con la pelle pallida. In più non parla il loro linguaggio emotivo, le sfuggono le frasi idiomatiche, i modi di dire e i motteggi di chi condivide lo stesso orizzonte. La lontananza dalla fidanzata, una storia appena iniziata ma che vede entrambe coinvolte, è la molla che fa scattare il senso di solitudine più estremo, che la porta a trascurare gli studi, a mentire a casa sugli esami fatti, e a consumare sesso frettoloso con una ragazza carina incontrata in una discoteca. L’annuncio del suicidio della cugina della compagna e il viaggio verso la famiglia di lei e i luoghi della sua infanzia accelerano un percorso di straniamento e di progressivo scollamento dalla realtà.
La soffocante medicalizzazione della morte, e la mancanza di una rete adatta a prestare ascolto a chi ha un disagio talmente profondo da voler sfuggire alla dolorosa consapevolezza di vivere in modalità frustrata, porta la protagonista a riflettere sul suo stesso vivere a singhiozzo, con il freno a mano tirato, ricordando i suicidi che ha vissuto, in particolare quello del suo più caro amico, tradito da un pettegolezzo e che non ha retto all’ostracismo familiare quando è stata scoperta la sua storia con un altro ragazzo. Il romanzo ha anche una forte connotazione di denuncia verso un sistema sanitario appesantito da richieste che non riesce a soddisfare. Chi ci ascolta quando ci sentiamo estraniati dalla fisicità del nostro stesso corpo, quando per ricordarci che siamo vivi dobbiamo cercare a fatica lo sguardo, spesso indifferente, di chi dovrebbe sostenerci?
La solitudine e il progressivo senso di scollamento dalla realtà portano la protagonista verso un delirio proteiforme, fatto di allucinazioni uditive e olfattive e che diventa la sua forma aggressiva di rivalsa verso tutte le piccole grandi sconfitte che costellano la sua vita.
Questa storia è un dito che preme in un punto doloroso specifico, la narrazione è potente, lirica, intensa, oscilla tra forma di intimità e irruenza, senza scampo, senza filtri, esposta, viscerale, sanguinante.
La sera dopo che ti sei tolto la vita hanno acceso tantissime luci. Brillavano fuori dalla tua stanza, si cantavano salmi, si tenevano discorsi commemorativi. La scuola ha perfino assunto uno psicologo d’emergenza per qualche tempo, quello che tu avevi atteso tanto a lungo invano, anche se quasi tutti sapevano che eri una bomba a orologeria.
Sei in coda, hai il numero 110. Sei solo un numero, un pezzo di carne, un gruppo sanguigno, una cartella clinica.