“Come d’aria” di Ada D’Adamo (Elliot)

“Non hai mai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in arte quando dalla terra spicca il volo e quando alla terra torna per cadere e di nuovo rialzarsi".

Di solito non mi lascio guidare nella scelta delle mie letture dai premi letterari, sia pur prestigiosi come quello che Ada D’Adamo ha vinto quest’anno con Come d’aria. Quando però, alcuni mesi fa, ho letto che l’autrice, già selezionata tra i finalisti del premio Strega, è venuta a mancare e ho saputo che il libro narrava la sua terribile esperienza di malata oncologica e di madre di una bambina disabile ho provato il desiderio di leggerlo e rileggerlo, tanto la prima lettura è stata per me toccante e rivelatrice. Non che il calvario descritto dalla scrittrice rappresenti, ahimé, qualcosa di insolito o inedito (la letteratura è ricca di testimonianze di malattie dolorose e invalidanti), ma per la profonda onestà intellettuale del racconto, dal quale emerge in modo insolitamente (questo sì) elegante, prezioso, ricco di pathos, di slancio lirico e di forza evocativa, la figura di una donna reale, con i suoi dubbi, con le sue debolezze, con la sua consapevolezza di non essere un eroe, di non aver scelto deliberatamente il proprio sacrificio, ma anche con la determinazione di portare avanti questo sacrificio fino in fondo con umiltà e coraggio. “Io la croce avrei preferito non caricarmela sulle spalle, la virtù non l’avevo scelta. Non mi sentivo, e non mi sentirò mai, una madre coraggio…” Così scrive a proposito di una lettera, da lei mandata a Corrado Augias e pubblicata su la Repubblica, nella quale prende le difese della Legge 194 contro gli attacchi degli antiabortisti dicendo: “L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico”.
La storia, articolata in brevi capitoli che vanno avanti e indietro nel tempo, è il racconto autobiografico dell’autrice che si rivolge alla figlia, Daria, affetta da una malformazione congenita, la oloprosencefalia, caratterizzata da gravi deficit motori e cognitivi. Quello che viene descritto con empatia e intelligenza è un calvario senza vie d’uscita che inizia subito dopo la nascita di Daria, quando alla gioia del lieto evento subentra inesorabile e beffarda la diagnosi della malattia, e si protrae per diciassette anni, tra controlli clinici, esami diagnostici, interventi chirurgici, barriere sociali, incomprensioni, necessità di supporti materiali e psicologici, carenze scolastiche, fino al presente funestato dal tumore in stadio avanzato dell’autrice. Eppure, in tutto questo calvario brilla una luce, si respira una paradossale leggerezza. È quella dell’umanità, della sensibilità e della felicità espressiva dell’autrice, che tutto abbraccia, tutto comprende e tutto sublima in un gigantesco atto d’amore. Amore nei confronti della figlia, della quale, a dispetto della malasorte, fa un ritratto luminoso, appassionato e pieno di dignità, e amore incondizionato per la vita, nonostante le sofferenze che ripetutamente e inspiegabilmente questa infligge. “Desideravo la bellezza” scrive l’autrice, “e tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina… Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te.”
Nel rapporto con la figlia è centrale la corporalità, quella corporalità che in lei è così profondamente minata. “Non hai mai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in arte quando dalla terra spicca il volo e quando alla terra torna per cadere e di nuovo rialzarsi”. Fin da piccola la figlia ha avuto bisogno di ausili (sedie a rotelle, seggiolini, comode, tutori, PEG) per permettere al suo corpo di adattarsi e di sopravvivere, ed è tristemente ironico che l’autrice in gioventù abbia deciso di fare della danza e dell’espressività del corpo la ragione della propria vita. Il senso profondo della corporalità ha trovato però modo di manifestarsi nel suo contatto fisico con la figlia (“Il tuo corpo parlava e il mio si sforzava di sentire quello che il tuo cercava di dirgli”) e quando questo contatto non è stato più possibile per la comparsa di metastasi vertebrali che l’hanno costretta a indossare un busto, lei ha scritto: “Adesso mi manca quell’intimità totale: respiro, odore, saliva e moccio, sudore, capelli incollati”.
Alle toccanti e umanissime descrizioni del rapporto con la figlia si alternano ricordi del passato: gli esordi nel mondo della danza e dello spettacolo, l’Estate Romana, il legame profondo con la famiglia d’origine (“Quel legame era talmente stretto da non permettermi di riconoscere fino in fondo la famiglia che intanto avevo formato”), il rapporto d’amore col marito e la gravidanza, durante la quale, ironia della sorte, l’autrice era impegnata alla stesura di un libro su teatro e disabilità, nulla sospettando di quello che sarebbe successo (“Aspetto una bimba sana. Tutto questo non mi riguarderà mai”.)
Ci sono pagine indignate, in cui si punta il dito contro le carenze sociali nei confronti della disabilità e si denunciano le mille difficoltà incontrate nel rapporto con operatori sociosanitari, medici, assistenti sociali, infermieri, insegnanti. Pagine nelle quali, accanto all’indignazione, è però sempre presente un atteggiamento di umana comprensione e di profonda empatia nei confronti di quella galassia di persone sofferenti che affollano le sale d’attesa dei consultori, dei centri di riabilitazione, degli ambulatori, dei reparti di degenza. Perché, come dice l’autrice, “quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale… E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura”.
Tornando sull’importanza del corpo, l’autrice riflette sul concetto di incorporazione, centrale negli studi sulla danza, per definire il proprio rapporto con la figlia, rapporto in cui i corpi, luoghi della memoria, trasmettono conoscenza, oltre che emozioni. Riflette su questo mentre si accorge con amarezza che la malattia e le terapie stanno minando anche il proprio corpo, imponendole nuovi limiti, che la fanno assomigliare sempre più alla figlia. Il processo d’identificazione è simboleggiato da un gioco di nomi: il suo, quello del marito e quello della figlia: ADA (Ada, Daria, Alfredo), D’Adamo.
“Finirò col disciogliermi in te?” si chiede. “Sono Ada. Sarò D’aria…”
La fine prematura dell’autrice dà a queste parole il senso di una nobile e dignitosa consapevolezza.

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Michael Sozzi

Michael Sozzi è nato sulle rive del Mare del Nord da un incrocio di geni vichinghi e mediterranei e vive a Trieste dove lavora come medico ospedaliero. Si è dedicato alla ricerca scientifica presso l’Istituto Tumori “CRO” di Aviano e presso la Vanderbilt University di Nashville, USA. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche ma si diverte, come i suoi antenati navigatori, a fare scorribande in territori altrui leggendo e scrivendo. Nel 2015 ha pubblicato con Luglio Editore il suo primo romanzo, “La zattera”. L’anno successivo ha frequentato a Roma un corso di scrittura creativa con Paolo Restuccia e nel 2022 ha pubblicato con Bertoni il suo secondo romanzo, “La complicanza”, già selezionato nella rosa dei dieci finalisti del Premio Letterario Nazionale per inediti "Subiaco, città del libro”. Nel 2020 ha pubblicato con l’editore friulano Morganti il racconto “Il cavaliere della chiocciola” nell’antologia “La natura offesa” e nel 2021 ha partecipato sempre con lo stesso editore alla stesura di un romanzo collettivo intitolato “Il mistero delle nove perle”. Ha avuto riconoscimenti letterari per i suoi racconti, tra cui il secondo posto nel 2021 al VII Premio Letterario Nazionale “Un Ponte sul Fiume Guai” per il racconto “Il fratello”, il terzo posto nel 2022 al XIV Premio internazionale di poesia e narrativa “San Gerardo Maiella” per il racconto “La foto nel sussidiario” e una Menzione d’onore, sempre nel 2022 alla II edizione del Premio “Lo spirito del Natale” con il racconto “Il Natale di Diego”. Un altro suo racconto, “Subito pranzo”, è stato selezionato al Concorso letterario per racconti friulani-giuliani, edizione 2022, ed è stato pubblicato in un’antologia di Historica Edizioni. Da alcuni anni scrive recensioni e racconti brevi per la rivista “Dentro la lampada” della scuola di scrittura creativa Genius di Roma.

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