Gianna aprì gli occhi, svegliata dal rumore della pioggia di marzo sulle persiane.
Era il ventiquattro del mese, quel giorno compiva settantacinque anni.
Rimase a guardare il soffitto, ancora cinque minuti e poi si sarebbe alzata.
Sul comò, di fronte al letto, gli occhi fieri di suo padre la guardavano da una foto rinchiusa dentro una pesante cornice d’argento. Era bello, Giuseppe, e orgoglioso. Aveva donato in beneficenza il suo patrimonio per vivere secondo i principi dell’anarchia e dell’egualitarismo.
Quand’era bambina le vie e le piazze di Pistoia erano attraversate da cortei di anarchici e Giuseppe, sempre presente, qualche volta la portava con sé.
A Gianna piaceva anche stare nella piccola bottega dove il padre riparava orologi: la bambina beveva ogni parola del padre, mentre guardava incantata le mani grandi e forti che, con movimenti delicati, rimettevano in moto rotelle e ingranaggi.
Poi, un giorno, lei e la mamma erano partite per andare a vivere a Firenze: i nonni materni, borghesi facoltosi, avevano convinto la figlia a lasciare quel marito facinoroso e malvestito che li faceva vergognare.
Anche Gianna si vergognava un po’ per le giacche lise e il colletto sgualcito del padre, poi si era pentita di questo, e allora aveva deciso di scrivergli una lettera ogni settimana.
A Firenze Gianna conduceva una vita agiata e frequentava l’Università, eppure il pensiero di quel padre che quasi ostentava la sua povertà per rimanere fedele ai suoi ideali non l’aveva mai abbandonata.
Poi, un giorno, Giuseppe era morto, stroncato da un infarto dopo l’ennesima aggressione da parte di un manipolo di fascisti.
Fu allora che Gianna capì che ormai era troppo tardi, e che suo padre, la sua lezione vivente, non sarebbe tornato mai più.
Aveva avuto tempo per tutto ma non per lui, e adesso il rimpianto e il rimorso la divoravano ogni giorno.
Ci aveva messo tanto per trovare la forza per cominciare a scrivere di lui, per recuperare le sue parole, per superare il dolore.
Gianna si alzò dal letto e si sedette al tavolino davanti alla finestra, rilesse quanto aveva scritto la sera prima. Doveva riprendere la conversazione con suo padre, il suo grande amore, e lo avrebbe fatto scrivendo un libro su di lui:
“Anche un libro: ci sono tanti modi per leggerlo; infine, però, per me e per te il più importante resta uno solo: cercare, in trasparenza, più o meno vicina, più o meno esplicita, la traccia di quell’idea. Ma, rimasta sola, senza la tua guida, io sbando, finisco col cercare altro, o cerco male. Sola: ho freddo, babbo.”
Bibliografia:
Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Mondadori;
Gianna Manzini, Forte come un leone e altri racconti, Mondadori.