La mano sfiora il palato, la gola, la trachea, tocca i polmoni, prima uno poi l’altro mi sembrano due spugne, lo sterno sul dorso, eccolo il cuore tra le dita, eccolo. È duro. Ne strappo un pezzo tirandolo con forza, viene via, lo estraggo e lo adagio sul letto, per farlo battere insieme al tuo. Poi l’altra mano. Giù di nuovo, palato, trachea, polmoni. Del polmone sinistro ne tiro via un pezzo grande quanto una noce, lo tiro su e tossisco e lo avvicino alla tua bocca. Si impregna del tuo respiro, lo vedo che si gonfia, brilla. Lo riprendo lo rimetto dentro di me al suo posto per far respirare il mio sangue del tuo respiro ogni giorno, senza tregua finché non dovrò rifarlo finché i polmoni non confonderanno il mio respiro con il tuo.
Prima di uscire da casa ti guardo, dormi. Esco dalla stanza, sbatto la testa al muro una, due, tre volte, torno da te, il volto rosso si copre di sangue ma tu non ti sei accorta di niente.
Adagio il pezzo di cervello sul cuscino, gocciola, ecco, a pochi centimetri dalla tua testa. Così sogno i tuoi sogni anche quando sono sveglio, ti guardo. Dormi, forse sorridi. Mi gratto all’altezza degli addominali, gratto la pelle, i muscoli fino ad arrivare al fegato e me ne strappo un pezzetto così da metterlo sul tuo comodino per lasciar colare la rabbia, quella che ogni tanto mi esce fuori, così, vicino a te, già la vedo che inizia a colare giù, nera e io mi sento meglio.
Cammino a fatica, non è stato facile, doloroso direi. Provo a uscire, un passo alla volta, lascio dietro di me una scia di sangue ma non è niente di spaventoso, connessioni che vediamo solo noi.
Una scia rosso rubino per sentirti ancora di più mentre mi allontano.
Sanguino, che ci posso fare. Mi do uno schiaffo sulla testa, stupido penso, mi giro e corro e torno su da te ma tu dormi ancora non hai sentito la porta sbattere. Alla fine ti svegli. Ti guardo aprire gli occhi ti bacio, corro in cucina. Hai un machete nel cassetto, lo impugno con la mano destra. Apro la mano sinistra, la stiro. Colpisco con il machete, mi taglio cinque dita all’altezza delle falangi.
Mi scuso per averti svegliata, sorridi. Mi siedo sul letto, intreccio le dita mozzate alle tue, così mi stringi quando non ci sono. Ti guardo. Forse non ti basta o forse non basta a me.
Allora infilo due delle dita della mano integra dentro l’occhio, le faccio ruotare intorno al bulbo oculare per estrarlo, una volta fuori lo lascio rotolare a terra così posso guardarti da tutte le angolazioni della stanza quando non ci sono. Guercio senza dita con il cuore strappato senza mezzo fegato ti accarezzo e vado via sorridendo respirando il tuo respiro. Mi siedo sulle scale per la fatica, solo qualche istante, mi serve ma non voglio tu lo veda. Ma mi alzo di scatto, stavo per dimenticare la cosa più importante. Torno indietro, saltello, mi scrollo, vibro, eccola, mi scrollo di nuovo eccola che viene via, seguo un’ombra sfilarsi dal mio corpo, esce dalle ferite, dalla bocca, dall’occhio, dalla pancia. Ti avvolge e ti entra sotto pelle. Me ne vado, non so bene dove.
Perdo troppo sangue mi sa, scivolo per le scale e mi perdo in strada, senz’anima è tosta, mica lo so se mi rialzo, ma almeno tu continui a vivere.