Temaki

Il racconto di Andrea Fassi di oggi ci parla di una moda "particolare", raccontata da un punto di vista del tutto nuovo.

Se ti tocca, ti tocca. Perché se gli umani vogliono, gli umani ottengono. Sembra però che questa situazione qui sia un lusso. Diversa dai classici “mise en place” degli “all you can eat”. Dovrei sentirmi sollevato.

Qui c’è pelle al posto della ceramica, odori vivi, non effluvi di riso cotto e salsa di soia. Qui c’è il calore del corpo, il sudore, la carne viva, liquidi dolciastri o amarognoli.

Io mi sarei anche accontentato di finire in mezzo agli altri. Sul classico nastro trasportatore, stretto, un po’ scomodo ma bello in vista che gira illuminato dalle luci. Qui è buio e l’odore inizia a farsi metallico.

Ma alla fine, dal mare fin qui, è un percorso lungo per tutti. Qualsiasi sia la fine.

Però, stare tra questi due molli lembi di pelle calda è una rarità. Si dice.

Che poi c’è un odore importante, ecco. Insisto. Rosa, erbe, forse un poco di metallo, aspro, acre.

Ma che mi lamento a fare. Che brutto se fossi finito in una confezione di plastica in giro per Roma. Come mio cugino, dentro l’Uramaki che era accanto a me nel frigo. Lo hanno preso, infilato all’interno di un contenitore di plastica insieme ad altri cinque come lui, pure con Zenzero mi pare, e poi dentro uno zaino.

Finiti tutti smembrati a un incrocio. Un camioncino ha centrato il “rider” sul monopattino che li trasportava, pare il “rider” sia morto. E l’Uramaki con mio cugino dentro e tutti gli altri via fuori dallo zaino sull’asfalto, poi nella spazzatura.

Non so, sono confuso.

Sento il vuoto dietro di me, immagino luci basse fuori di qui, soffuse. Perché davvero qui è buio anche se non mi hanno infilato dentro dentro. Sento solo il frusciare della pelle che sfrega, il soffio delle gambe che strusciano l’una sull’altra. La chiamano “atmosfera”. È quando gli umani lavorano per creare attesa, non so spiegarlo bene, come quando intorno l’acqua era immobile e non c’erano correnti prima che uno squalo attaccasse pesci più piccoli.

Adesso è tutto morbido e bagnato qui. Il riso che mi ricopre si sta ammorbidendo.

Cos’è? Fermi. Sta vibrando il corpo, tremo anche io. Lei è una donna, ok lo so. Sta vibrando adesso.

Credo sia eccitata. L’odore di rosa sta sparendo, si fa più forte l’acre ed è tutto sempre più umido.

Mi sento un povero cretino. Io che pensavo a una fine gloriosa. Fermo qui al buio tra due lembi di pelle sottile che dondolano e mi coprono ogni visuale. Che poi, che mi ci metti a fare qui? Proprio qui in mezzo dico.

Luce. Aspetta. Le cosce lunghe e muscolose si schiudono. Per Poseidone!

Poca luce, che bella pelle però. Elegante. Sembra il guscio di quelle conchiglie levigate dalla corrente giù negli abissi dove vivevo. Sento il riso intorno scivolare un po’.

Ai cugini dentro i piccoli Maki, sono toccate le tette. Li ho visti di sfuggita mentre lo Chef mi portava qui sotto. Posizionati tutti intorno ai capezzoli continuavano a rotolare, ce le ha proprio grosse e sode le tette questa qui.

Buffo ne sappia così tanto di come sia il corpo di una donna. Eh. Sono stato pescato nel Mediterraneo. Tutti maschi barbuti i pescatori. Parlavano solo di questo. E io questo ho imparato.

Tremo di nuovo. È tutta un fremito adesso. Sembra quando i pesci saltano sconnessi sulla spiaggia, poco prima di morire vibrano e sbattono veloci, sempre più veloci.

La spiegava lo Chef al commis la morte sulla spiaggia dei pesci, io non ne ho mai visti morire così però, perché ero in mare.

Ora che le gambe fanno penetrare un poco di luce, intravedo un dito picchiettare sopra di me. Ma non mi sfiora neanche. Picchietta un lembetto di pelle che esce.

E se si sbaglia? Se mi da una botta e finisco dentro? Dov’è questo lusso?

Già quasi soffoco tra riso, avocado e alga.

Perché proprio qui? Proprio me, qui. Forse per la forma “a cono” del Temaki in cui mi hanno messo. Mi sa perché gli umani si annoiano tanto.

Mi ha adagiato con cura lo Chef, la donna ridacchiava, la sentivo. Lo Chef è andato via dicendo:

– Il Temaki è posizionato. La punta del cono un poco dentro, il gambero spunta fuori. Abbiamo tenuto la testa. Intero. Il pezzo forte, come richiesto dal cliente.

Mi ha infilato qui, lei ha fatto un gridolino e ha chiuso le gambe rimaste serrate fino a un istante fa, come se nell’attesa temesse scivolassi via.

– Ahia!

Si sta agitando sul serio, il dito va più veloce, molto più veloce e lei si contorce.

Non ci credo. I Gunkan con gli altri dentro. Quelli che volano a terra sono i Gunkan. Poveracci. Questa si sta scaldando troppo, io traballo, devo rimanere fermo o scivolo. Fermo. È sempre più bagnata, mi pesa il riso intorno. Guarda te se ci finisco dentro per davvero, o peggio muoio stritolato. Mi risucchia tipo mulinello. Ridacchio, riso isterico lo so.

Meglio se la smetto, che se rido mi vibrano tutti i chicchi.

Ma cosa succede?

I lembi di pelle mi tengono a malapena, grondano, si schiudono, colano un liquido sempre più denso che arriva dalle pareti del fondo viscoso, sono come le pareti della bocca di una balena. Il riso pesa sempre di più, è tutto vischioso. Ora sono tre le dita che picchiettano, non una, sono velocissime. Strusciano, sfregano anzi, non picchiettano più.

I cugini dentro i Nigiri, li vedo scivolare via dalle cosce, non li avevo notati: – Hey mi sentite? Hey!

Pesce da una parte, riso dall’altra, addio anche ai Nigiri. Un grosso faccione con la barba fatta si china e mi torna tutto in ombra per un attimo. Vedo il mento, poi sento lo schioccare di un bacio, il gorgoglio del succhiare la pelle e intravedo la lingua scivolare sulla gamba della donna. Si prende in bocca un Nigiri, l’ultimo ancora in bilico.

Gli altri giù, smembrati, a terra. Io sono in bilico ormai. Non reggo.

Si contrae tutto intorno a me. Vibra sempre più veloce la donna. Intravedo la pelle della gamba bagnata dalla saliva dell’uomo.

Si contrae tutto, vacillo, poi sento una morsa.

I due lembi di pelle che mi avvolgono premono sul riso, sento le pareti stringersi, mi sembra di tornare in mare, quando le correnti mi trascinavano giù. Le dita sopra di me vanno ancora più veloci, a questa tipa si stringono i muscoli come tentacoli di un polipo.

Ma che succede? È tutto buio di nuovo, mi sta risucchiando dentro di sé. Sembra la pressione degli abissi da dove vengo. Ma poi, in mare, la pressione ti rigetta. Spero.

Non ci credo. Mi sento a casa. Sono in quel momento in cui il mare ti fa quella risacca, ti culla con violenza e poi arriva un’onda potente e voli su, poi giù, nell’acqua profonda.

No. Santo Tritone. Il getto è potentissimo, non è come le onde. Ora ho capito perché sono proprio qui. Non mi sta risucchiando. Come in mare. Volo via spinto da uno spruzzo; scivolo via come quegli umani, quelli lì che sulla tavola da surf cavalcano le onde. E volo.

I chicchi si sfaldano, si mischiano agli schizzi. L’alga scivola sul fiotto e io continuo il volo su questo liquido che non sa di mare. Roteando nel getto, intravedo la mano che si muove sul lembetto di pelle ormai violaceo, così veloce da non distinguere più le dita. Lo spruzzo mi spinge ancora in alto. Mi sembra di tornare a casa, in mare. In aria seguo ancora l’eruzione di spuma che zampilla intermittente. La natura. Ma subito perdo velocità, il sapore è acre. E non sono a casa. Non ci sono abissi in cui tornare per essere cullati di nuovo. Non c’è mare.

Mi spezzo la piccola coda sulla gomma rigida di un telefono puntato su di me.

L’odore pungente del liquido che mi ha accompagnato è ovunque, sento ridere e sento un uomo dire: – Brava!

Lascio filamenti viscosi sulla gomma, la testa pesa e scivolo giù. Gli umani sono così annoiati che non volevano nemmeno mangiarmi.

Precipito di testa verso il pavimento. Non è come dicevano gli altri, non c’è lusso alcuno qui nel vuoto.

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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