«Tuo padre era un infelice! Me lo hai sempre detto con una punta di disprezzo, come se essere infelici fosse una colpa.»
«Non è vero, lo sai bene. Non era questo che gli rimproveravo. Quello che non sopportavo erano le sue indecisioni, le sue smanie, le sue improvvise fughe. Quante volte ci lasciava nel bel mezzo di una gita per andarsene in giro da solo! Due o tre ore in mezzo ai boschi o in riva al mare! Sempre lì a meditare, a rimuginare. Era incapace di rilassarsi, di essere spontaneo.»
«E io, mamma, cosa sto facendo? Cammino in riva al mare e medito, come ogni giorno, come faceva papà. Forse è anche questo un modo di rilassarsi, di essere spontanei. Non credi?»
«Si è spontanei con gli altri, non con se stessi! Da soli non ha senso.»
«Questo lo dici tu! Per me lo ha. Vivere persuasi, soprattutto in se stessi, non è affare da poco. Fior di filosofi ci si sono rotti la testa.»
«Ah, sei proprio come tuo padre!»
«Lo so, grazie. Detto da te, però…»
«E invece ti sbagli. Amavo tuo padre, a dispetto di tutto. Anche della sua infelicità e dei suoi perenni dubbi. Anzi, forse proprio in virtù di questo. Era un uomo speciale, pieno di fascino, diverso dagli altri.»
«Bontà tua…»
«Non fare lo spiritoso. Sono cose che sai benissimo. Come sai che adoravo te, che sei la sua copia. Mi auguravo solo che non fossi condannato alla sua stessa infelicità. E i presupposti c’erano. Eri un bambino intelligente, curioso, aperto ad ogni nuova idea e avevi anche forza e cuore, doti che a tuo padre difettavano. Sembravi benedetto da Dio!»
«Ma dai, mamma, come al solito esageri! Se lo fossi stato avrei combinato qualcosa nella vita.»
«So io cosa ti ha rovinato! Volevi essere a tutti i costi originale e ti ostinavi a cercare l’impossibile. Certi libri poi…»
«I filosofi non hanno mai fatto del male a nessuno, mamma. Caso mai a se stessi, qualche volta, come quello a cui alludi. Il fatto che si sia sparato così giovane non toglie nulla alla validità delle sue idee. Mi piaceva, sì, ne ero quasi ossessionato, ma non sono stati i suoi libri a cambiarmi la vita. È stato un libro molto più comune: il sussidiario delle elementari.»
«Il sussidiario?»
«Sì, mamma, proprio il sussidiario!»
Per molti anni non aveva dato importanza a quella storia. Poi sua moglie, esasperata dalle sue manie, lo aveva lasciato e lui aveva cercato aiuto da uno psicologo. Dopo un po’ anche lo psicologo lo aveva abbandonato, dichiarando che il suo era un caso disperato. Dovevano essere i filosofi a tirarlo fuori dai pasticci, gli stessi – e ridagli! – che ce lo avevano messo dentro. Ma i filosofi non c’entravano niente, aveva ripetuto lui! Caso mai – e gli era tornata in mente quella storia – la colpa era di quella immagine nel sussidiario. Solo sua mamma, ammesso che lui gliela avesse mai raccontata, avrebbe potuto forse ricordarsene, ma ormai non lo poteva più fare perché era morta da un pezzo. Continuava però a fargli compagnia nelle sue lunghe passeggiate in riva al mare.
«Ti ricordi, mamma, quanto mi piaceva l’estate, il mare, i bagni?»
«Ricordo, sì. Pure in questo somigliavi a tuo padre, che in ufficio sfruttava la pausa pranzo per farsi una nuotata. Anche dopo il lavoro, nelle belle e lunghe serate di giugno e luglio, ci raggiungeva al mare per farsi un tuffo. Poi ci riportava a casa in macchina.»
«Che bei momenti, mamma! Poi però c’erano gli inverni, che non finivano mai. Ed è stato in uno di quegli inverni – non ricordo quale – che un giorno a scuola (fuori era scuro e pioveva) ho aperto il sussidiario e mi è venuto un tuffo al cuore. Era semplicemente l’immagine di un uomo che nuotava in mare. Niente di più. Eppure, quell’immagine mi sembrò una finestra aperta sul paradiso. L’estate irrompeva calda, luminosa e travolgente nella prigione buia in cui mi trovavo e mi inondava il cuore di nostalgia! Avevo voglia di abbracciare quel mare azzurro e di berlo con le mie mani come limpida acqua di rocca. Volevo inebriarmi della sua freschezza e perdermi nella schiuma bianca che si alzava dai piedi e dalle mani del nuotatore. Mi pareva che quell’uomo, totalmente abbandonato alla potenza vivificante del mare e allo stesso tempo suo signore con le proprie energiche bracciate, fosse il più felice della Terra. Pensai allora con struggimento che solo pochi mesi prima quella felicità era stata anche mia, ma che non me ne ero reso conto, che me l’ero fatta scivolare addosso distrattamente. Quello stato di grazia, che ora mi appariva così prezioso, mi era sfuggito dalle mani senza che neanche avessi tentato di afferrarlo. Com’era possibile? Essere felici e non accorgersi di esserlo? Avrò avuto sei o sette anni e quella domanda, che si affacciava per la prima volta alla mia mente, mi sembrava fondamentale per capire i misteri della vita. Ne ero angosciato, ossessionato e me la ripetevo continuamente, guardando e riguardando quell’immagine con il desiderio di ritrovare quel senso di beatitudine che mi aveva dato la prima volta, e ritrovando invece, dopo un primo, breve momento di gioia, soltanto l’angoscia di quella domanda. Mi ripromisi allora che da quel momento in poi avrei vissuto con maggior consapevolezza i miei momenti di felicità. Quell’estate al mare avrei detto a me stesso: “Ecco, quest’acqua fresca, questi tuffi, questo sole caldo, queste giornate infinite sono tutte gioie di cui in questo momento posso godere e che devo vivere fino in fondo. Ora sono io il nuotatore della figura del sussidiario e quando questo inverno guarderò con nostalgia quell’immagine potrò dire che questi momenti li ho vissuti veramente, con pienezza, che non me li sono lasciati scappare.” Insomma, mamma, prima ancora di essere stato “traviato”, come dici tu, dai filosofi e dalle loro teorie, avevo intuito, che la persuasione nella vita si annidava nel presente e che lì andava cercata.»
«E l’hai trovata? A me non pare. Per tutta la vita hai continuato a dimenarti come un cane alla catena.»
«Volevo prevenire i rimpianti. Per questo annotavo tutto ciò che vedevo, che sentivo, che provavo, che mi dava gioia o dolore. Niente doveva sfuggirmi. Non volevo più ritrovarmi a dire “Ma come? Avevo davanti agli occhi tutto questo e non me ne sono accorto?” Anche l’amore per Rita, soprattutto quello, non doveva sfuggirmi. Ogni momento con lei doveva essere testimoniato. Ho riempito migliaia di taccuini parlando di lei. C’è scritta tutta la nostra storia, giorno per giorno.»
«Peccato che per scriverla hai dimenticato di viverla. Rita me lo diceva che eri sempre assente o meglio che c’eri fisicamente ma non mentalmente. Eri totalmente immerso nelle tue osservazioni, curvo sui tuoi taccuini, isolato nel tuo mondo. Esattamente come tuo padre, anche se lui non scriveva. Si limitava a pensare. Era questo per te vivere il presente?»
«C’è tutto di me e di Rita in quello che ho scritto!»
«Però non c’è più Rita. Vivere insieme il presente è ruzzolare gioiosi e inconsapevoli. Lo sguardo indagatore paralizza la vita. Casa tua era diventata un museo, alquanto caotico per la verità. Mi è venuto un colpo quando quelli del Centro di salute mentale mi hanno avvisata che ti avevano trovato delirante in mezzo ai tuoi taccuini. Ho detto loro che avevi sempre avuto la passione per la scrittura, ma non pensavo che ti fossi ridotto a quel modo.»
«Con Rita ero felice. Mi è mancata molto quando se n’è andata.»
«E saresti stato meno felice se non avessi annotato tutto? Avresti meno rimpianti ora?»
«Certo che no. Ora ho capito, mamma. Avevi ragione. Ora sto meglio, puoi stare tranquilla. Mi hanno spiegato che il mio problema da bambino non era quello di non aver saputo fissare i bei momenti, ma quello di essermi soffermato a rimpiangerli davanti al sussidiario. Ora non ho rimpianti e mi sento più sereno. Quei farmaci che mi danno sono una gran bella cosa. Mi aiutano a non pensare, a vedere le cose con distacco, a dimenticare.»
Si fermò a guardare il mare. Sulla sua superficie, spazzata dal vento, si vedevano in lontananza piccole creste di spuma e in vicinanza chiazze scure e rugose che correvano veloci, si aprivano a ventaglio, per poi sovrapporsi ad altre e disperdersi come brividi. La sua attenzione fu attratta da un uccello diverso dai soliti gabbiani, piccioni e cormorani che vedeva ogni giorno. Era posato su di uno scoglio e aveva grandi ali nere spiegate, che sembravano stese al sole ad asciugare. Il becco era lungo e ricurvo e sul capo si alzava una cresta. Era un raro Marangone dal ciuffo.
«Hai visto che bello, mamma? Sembra anche lui in contemplazione!» Prese dalla tasca un taccuino e si mise a scrivere.
«Dai, andiamo», disse l’infermiere che l’accompagnava. «Torniamo al centro che fa freddo. Potrai continuare là dentro con i tuoi scarabocchi!»
Era da un po’ che veniva accompagnato nelle sue passeggiate perché una volta, in pieno inverno, aveva tentato di abbracciare il mare e ci era caduto dentro.