Non riesco a staccargli gli occhi di dosso. Guarda come è ridotto. Penso. Mi inquieta. Mi tengo a distanza sul marciapiede opposto al ragazzo cadaverico dall’altra parte.
Penso sia sballato. Penso si faccia di eroina. Sta buttato addosso al cemento come i murales di quel tipo, Banksy. Le opere di Banksy sono una provocazione. Quel poveraccio può essere al massimo un buon motivo per le persone per allungare il passo e scappare al sicuro nelle loro case.
Una sensazione di vuoto mi cresce nello stomaco, una bolla d’aria fin su nella gola.
Il marciapiede è stretto e la gente passa curandosi bene di non sfiorarlo, neanche fosse un appestato. Chissà da quanto è lì con la testa adagiata sulla spalla e quel cartone con scritto HO FAME.
L’avranno buttato fuori da casa i genitori durante una crisi. Penso.
Una ragazza con dei tacchi neri passa, rallenta scrivendo al cellulare, e quasi inciampa su di lui. Alle opere di Banksy almeno fanno le foto, lui è invisibile.
Non ricordo da quanto io sia qui a fissarlo. Come ti sei ridotto cosi? Penso.
Mi fa pena. Le ossa degli zigomi spingono la pelle sottile e trasparente, da qui sembra un teschio. Lo immagino trascinarsi nei vicoli per farsi fino a quel muro, dove stampa sul cemento la sua solitudine. Meglio di Banksy.
Il suono di una sirena mi distrae. Arriva un’ambulanza. Deve averla chiamata un passante tra le decine che ho visto ignorare il ragazzo.
Ma che vengono a fare? Penso. Quello dopo che gli passa la botta si alza e se ne va. O al massimo lo buttano dentro un ospedale qualche ora e poi fuori, in strada di nuovo a marcire.
I due operatori dell’ambulanza scendono e si avvicinano al ragazzo. Ora non riesco a vedere più nulla. Il mio battito rallenta e sento freddo. Dal vociare un gruppetto di persone si è accalcato per vedere il dolore più da vicino, si può sempre raccontare. Perché li sento su di me, sono dalla parte opposta della strada? Vorrei se ne andassero.
– Andate via – sussurro.
Sale un vociare.
Uno dei due operatori si alza veloce e corre verso l’ambulanza. Sento armeggiare con una sacca.
L’uomo tira fuori un defibrillatore gridando – Carico! – Improvvisamente sento ferro freddo sul petto. – Scarica – Il dispositivo dà una scossa violenta.
Una fitta violenta mi trafigge il cuore. Ho paura.
Riapro gli occhi a terra spalle al cemento e ho il paramedico davanti a me. L’effetto dell’eroina è ancora in circolo ma sono vivo. Chissà i miei genitori.
Accenno un sorriso con i pochi denti rimasti.
– Ma ero dall’altra parte – dico, con la bocca impastata.
L’uomo armeggia sul mio petto puntando di nuovo gli estremi del defibrillatore. Un’altra fitta. Mi pratica un massaggio cardiaco. Poi non sento più nulla.
Intorno a me il gruppo di ragazzi indietreggia. Una minuscola parte di me vorrebbe essere uno di loro. Vorrei scambiarmi con uno di loro, davvero. Ma non ho volontà. Non ho forze. Non ne ho mai avute.
Il guanto di lattice del paramedico chiude i miei occhi mentre le voci intorno sono sempre più lontane.
Sto andando, altrove.