Il vocione da maschiaccio di Silvia risuonò in tutto il Pronto Soccorso. “La dott.ssa Guerrini è desiderata al triage”. L’infermiera pronunciò la frase col suo accento senese, in cui la t di desiderata sembrava il th degli inglesi. Anna sussultò. “Chi è che mi cerca?”. In una frazione di secondo passò in rassegna i suoi familiari che fino alla sera prima stavano benissimo. Poi controllò il cellulare, ma non c’era nessuna chiamata. Consegnò rapidamente al paziente che sedeva davanti a lei il foglio della dimissione appena firmato, gli ripeté per l’ennesima volta la terapia consigliata e dopo averlo salutato uscì dall’ambulatorio, dirigendosi verso l’ingresso del Reparto. Silvia era impegnata a inserire il primo di una lunga fila di pazienti in attesa ma appena la vide smise. “Questo m’ha detto di cercarti” disse sbuffando e indicò un uomo di mezza età appoggiato al bancone a pochi passi da lei. Anna lo guardò perplessa perché non lo riconobbe subito; del resto erano passati trent’anni dall’ultima volta in cui l’aveva visto e lui aveva messo su parecchi chili. Il viso che lei ricordava triangolare ora sembrava quello di un gatto persiano in cui gli occhi verdi, il suo punto di forza, si vedevano appena e ai lati della bocca, meno carnosa di un tempo e rivolta verso il basso, erano comparse due rughe profonde. Aveva ancora il brillantino all’orecchio destro e indossava un giacchetto di jeans come ai tempi del liceo, solo che dalla maglietta sottostante ora sporgeva un rotolo di grasso. “Ciao bellezza” le disse come se si fossero incontrati il giorno prima; poi si aggiustò con la mano destra il ciuffo che gli scendeva sugli occhi. I capelli erano più o meno gli stessi, folti e voluminosi, però non più di un nero corvino ma screziati di grigio, soprattutto sulle tempie. Anche la voce roca, virile, non era cambiata per niente. “Ciao” rispose glaciale Anna evitando di guardarlo negli occhi e concentrandosi sul tatuaggio orrendo che aveva sul dorso della mano. “Hanno portato qui mio padre due ore fa, vomitava sangue dalla bocca. Te ne sai niente?” proseguì lui con lo stesso tono confidenziale. “Dimmi come si chiama e mi informo”. Silvia, soprannominata “Radio Serva” da quanto era pettegola, se ne stava immobile con il volto rivolto verso il computer e l’orecchio teso per non perdere un briciolo della conversazione. “Luciano, Luciano Guzzanti, il cognome te lo ricordi no?” disse lui e gli comparve un sorriso ironico su quella faccia da felino. “Mi informo e ti faccio sapere” replicò alla svelta Anna e tornò dentro all’ambulatorio. “Alzati da lì che devo controllare una cosa” disse bruscamente allo specializzando che si era seduto al posto suo. Aprì la cartella elettronica del paziente Guzzanti, lesse quello che c’era scritto e ritornò al triage. Lui non si era spostato di un centimetro. “Ma questo chi è?” chiese Silvia scocciata. “Gli ho detto di mettersi seduto in sala d’attesa ed è rimasto qui appiccicato al vetro”. Anna stava per risponderle: “E’ sempre stato un arrogante” ma tagliò corto: “Uno che era in classe con me al liceo”. “Tuo padre ha perso molto sangue e sta facendo una trasfusione” disse chinandosi verso il foro nel vetro con fare professionale “e ha in programma una gastroscopia”. “E’ molto grave?” chiese lui corrugando la fronte. “Abbastanza” rispose Anna. “Gli sta bene a quel testone, con quanto ha bevuto in tutti questi anni, te lo ricordi anche te no che era un alcoolizzato” proseguì lui alzando la voce e battendo un pugno contro il bancone. Silvia lo guardò storto ma non disse una parola. Anna annuì: nell’anamnesi aveva letto “paziente etilista” ma lo sapeva di già perché a quei tempi ne avevano parlato spesso loro due. “Ti faccio entrare a salutarlo, vieni” gli propose di getto. Subito dopo sentì sopra di sé lo sguardo indagatore dell’infermiera che la stava fissando con i suoi occhi sporgenti truccati con un ombretto lucido verde smeraldo: ad Anna fece pensare ad un rospo pronto a saltarle addosso. “Lo faccio passare dal corridoio della Radiologia, così non ti disturbo” le disse sorridendo e uscì in sala di attesa. “Seguimi” gli intimò indicando con la testa una porta laterale. Poi si aggiustò meglio il fonendoscopio intorno al colletto del camice. Quella mattina mentre si metteva gli orecchini di smeraldi che le aveva regalato suo marito per i cinquant’anni aveva pensato che erano proprio in tinta col verde del fonendoscopio. Lui le andò dietro in silenzio. Una volta superato l’ingresso della Radiologia si ritrovarono da soli nel corridoio. “Ancora pochi metri e me lo levo di torno” pensò Anna “e speriamo di non incontrare nessuno”. Lui si fermò a guardare sorpreso le pareti di colore azzurro intenso. “Ma qui sembra di essere su una nave più che in un ospedale, me lo potevi dire che facevi il medico della crociera” disse scherzando. Anna rise involontariamente. La prima volta che era entrata in Radiologia lo aveva pensato anche lei. Allungò il passo. “Allora ti piace la tua professione?” chiese lui affiancandola. “Del resto la prima della classe non poteva che fare il dottore”. Anna notò del sarcasmo nella sua voce: ne avevano parlato spesso di cosa fare all’università allora durante i pomeriggi che trascorrevano insieme. “Mi incontro con Rosaria e facciamo una giratina per il corso” diceva a sua madre Anna prima di uscire verso le cinque. Invece il più delle volte andava a piedi a casa della nonna di lui, che abitava nella via parallela alla sua. Era iniziato tutto in quinta liceo. Lui che dopo essere stato bocciato era arrivato in classe sua in quarta non le aveva mai rivolto la parola per un anno, se non per bistrattare quelli che come lei stavano seduti in prima fila. Poi una sera si erano incontrati per caso in Via degli Orti. “Te che ci fai qui nel Bruco?” gli aveva chiesto lui col suo fare arrogante. “Io vivo qua vicino, te piuttosto?” aveva risposto lei prontamente. Però non aveva tirato a dritto ma si era fermata a chiacchierare. Lui era diventato improvvisamente un altro, affabile, cordiale e aveva iniziato a raccontare di sé. “Io vengo spesso qua da mia nonna” aveva detto indicando una di quelle casine colorate attaccate l’una all’altra. “La vecchia non è una gran compagnia sai, non c’è più tanto con la testa, ma è sempre meglio che a casa dove mio padre all’improvviso inizia a spaccare i piatti”. Anna a sentirlo parlare così era rimasta a bocca aperta, come se avesse visto un marziano. “Vieni a trovarmi qualche volta no?” le aveva chiesto lui con malizia. “Perché no?” aveva risposto lei in maniera impulsiva. Più tardi si era raccontata che i marziani la incuriosivano; in realtà lui le era piaciuto dal primo giorno in cui lo aveva visto entrare in classe con quegli occhi verdi ed il ciuffo ribelle.
“E’ una professione impegnativa, ma dà tante soddisfazioni” rispose Anna guardando diritto davanti a sé. “E scrivere, scrivi sempre?” chiese lui. “No, ho troppo da fare, tra il lavoro e la famiglia”. Sollevò leggermente le spalle come a scacciare una mosca. Non gli disse che qualche volta da sola aveva provato a buttare giù qualche storia ma che dopo, rileggendola, si era sempre sentita ridicola.
“I miei insistono perché mi iscriva a Medicina o a Giurisprudenza, non ne vogliono nemmeno sentir parlare della facoltà di Lettere”. “La vita è la tua mica la loro” aveva replicato lui sdraiato sul lettino che era stato di sua madre, con la sovracoperta fatta all’uncinetto mezza strappata. Era lì che passavano i pomeriggi loro due, mentre la nonna sonnecchiava davanti alla televisione in soggiorno. “Del resto mio padre che è medico mi lascerebbe uno studio già avviato” “Ma te cosa vuoi?” “Non puoi capire” aveva ribattuto lei e si era trattenuta dall’aggiungere “te che sei già bocciato una volta e vieni da un altro contesto”. “Certo, quante cose io non posso capire, come il fatto che in classe mi ignori o che per il corso non mi saluti” aveva risposto lui mettendosi seduto sul letto e spingendo il palmo delle mani contro il materasso. “Ma che vuoi da me? Vuoi venire a conoscere i miei?” “Perché lo faresti se te lo chiedessi?”. Aveva ragione: sua madre non lo avrebbe mai fatto accomodare in salotto, se non altro per come vestiva. “Questa è l’ultima volta che vengo qui” gli aveva detto Anna chiudendosi alle spalle la porta di quell’appartamento. “Perché perdo tempo con uno con cui non ho niente in comune?” si era chiesta girando il viso da un’altra parte mentre incrociava un suo vicino di casa appena uscita dal portone. Invece poi ci era tornata, fino al giorno in cui erano usciti i risultati della maturità per cui avevano studiato insieme: quella mattina dalla gioia di aver preso trentasei grazie agli sforzi di lei l’aveva abbracciata all’improvviso, lì davanti a tutti gli altri, e aveva cercato di baciarla. Lei si era divincolata e lo aveva allontanato come un estraneo. “Sei una borghese del cazzo” le aveva urlato lui. “Ma questo è matto” aveva detto Anna guardando inorridita le sue compagne di scuola che strano a dirsi non sembravano particolarmente sorprese.
“Scommetto che hai sposato un collega” proseguì lui. “Hai indovinato. Fa il cardiologo in questo ospedale” rispose Anna e si aggiustò gli occhiali con la mano sinistra, dalle unghie perfettamente curate, mettendo in bella mostra la fede con accanto l’anello di fidanzamento. “Sono stata fortunata ad incontrare mio marito”. La frase le uscì di bocca con una dizione perfetta, da attrice collaudata. Del resto la ripeteva da anni a tutti quelli che le chiedevano del suo matrimonio. La prima volta l’aveva pronunciata fuori dalla chiesa subito dopo la cerimonia mentre presentava lo sposo ad alcuni lontani parenti: gli addobbi del miglior fioraio della città, gli invitati eleganti, suo marito che la teneva per mano con lo sguardo adorante; era stato un giorno perfetto, a parte il fatto che Anna ogni tanto aveva avvertito una morsa al petto, ma era colpa del vestito di pizzo che le cingeva troppo il torace. E lui ovviamente non era stato invitato, perché si erano persi di vista da tempo, anche se ogni tanto era a lui che pensava, ad occhi chiusi, mentre era a letto con suo marito.
“Davvero?” replicò lui ironicamente. “Certo” rispose Anna ripensando che quella sera avrebbe finalmente cenato al Rotary per la prima volta come moglie del neopresidente. “Ne sono proprio sicura”.
Erano arrivati alla fine del corridoio. “Questa è la porta del Pronto Soccorso riservata al personale. Ti lascio qui. Tuo padre è in uno dei box qui accanto, sulla sinistra” gli disse glaciale. Digitò il codice di ingresso e la porta a soffietto si aprì. “Ciao” lo salutò bruscamente. “Grazie mille” rispose lui sulla soglia con una improvvisa nota di affetto nella voce. “E scusami per le domande indiscrete, te lo sai come sono no? Invecchiando sono anche peggiorato”. Poi sollevò una mano e la toccò delicatamente sulla guancia. “Te invece sei rimasta come allora, carina da morire”. Anna sentì un brivido di desiderio scorrerle lungo la schiena appena le dita di lui sfiorarono la sua pelle. Lo vide fare un passo e scomparire mentre la porta si richiudeva. Stette ferma per un secondo, poi digitò di nuovo il codice in fretta e quando la porta si riaprì se lo ritrovò davanti, girato a guardare indietro come se la stesse aspettando. “Filo” gli disse usando l’abbreviativo del suo nome Filippo, il nomignolo con cui lo chiamava quando erano soli “mi dispiace tanto” e sentì le lacrime che le salivano agli occhi. “Per tuo padre, volevo dire” aggiunse rimandandole indietro. “Anche a me” rispose lui “Per mio padre ovviamente”. Anna vide un luccichio nei suoi occhi che qualcun altro avrebbe scambiato per il riverbero della luce del neon sul soffitto, ma lei no. “Ha capito tutto, non è mai stato uno stupido”. La porta che si chiudeva alle loro spalle fece rumore. “Devo andare” mormorò lei e tornò indietro nel corridoio della Radiologia. Sulla sinistra c’era la porta del bagno riservato al personale e ci si infilò di corsa. Si appoggiò con le spalle contro il muro, mentre le lacrime le scorrevano lungo il viso. “Ma che sto facendo, devo tornare al lavoro” pensò. Si aggiustò davanti allo specchio. “Che occhiaie che mi stanno venendo col passare degli anni” si disse lavando via il mascara che si era sfatto sotto gli occhi. Uscì dal bagno e rifece il corridoio all’indietro per arrivare al triage. Silvia era ancora lì seduta, dietro al bancone, questa volta senza nessun paziente davanti. “Mi fai entrare?” le chiese Anna. L’infermiera si alzò dalla sedia per aprirle la porta. Si trovarono una di fronte all’altra. “Ma che hai pianto?” le chiese Silvia. Anna annuì. “Forse avrà un briciolo di pietà e non farà altre domande” pensò. “Per quel gazzilloro che era qui davanti? L’ho riconosciuto sai, è quello che c’ha il bar a Quercegrossa, è arrogante anche quando ti dà il resto alla cassa”. Anna sentì una gran rabbia montarle addosso. “Ma te che ne sai di come è lui? Invece per me è stato un grande amore ai tempi del liceo” urlò guardandola dritta in faccia con aria di sfida. L’infermiera sgranò i suoi occhi da rospo: Anna non aveva mai alzato la voce con nessuno al lavoro e non aveva mai raccontato niente di così personale. Dopo un attimo di incertezza l’infermiera si riprese perché era una che aveva sempre la risposta pronta. In tono sbrigativo disse: “Un grande amore? Ma non grande abbastanza si vede” tornando a sedere al suo posto. Anna ebbe l’impressione di aver ricevuto all’improvviso uno schiaffo. Quella frase di saggezza popolare semplificava enormemente dinamiche molto più complesse, più complesse almeno per lei. Abbassò gli occhi e si diresse verso l’ambulatorio. “Mi sta bene, me la sono cercata. Ma come mi è venuto in mente di farle una tale confidenza? Ora ha la sua storia da divulgare maledetta” pensò stringendo i denti. Si mise seduta e mentre cliccava automaticamente sul nome del paziente successivo si vide da fuori col suo camice in ordine, i capelli aggiustati, il viso sorridente, lo stesso che avrebbe mostrato quella sera alla cena sociale accanto a suo marito: sapeva che al lavoro l’avevano soprannominata la principessa, per la sua bellezza altera che teneva tutti a distanza. Per la prima volta si chiese se chi gliel’aveva messo aveva anche intuito la solitudine profonda che avvertiva ora nel cuore.