Solitudini urbane perfettamente narrate, sono il filo intimo, profondo, che tiene insieme le parole di questi racconti. Il magico, il surreale si mescola con l’innocente casualità dei sentimenti, dei legami costruiti sul bisogno di nascondersi.
Siamo tutti fragili, ansiosi di trovare l’anima gemella, talmente ansiosi che rischiamo di restare intrappolati nelle proiezioni emotive dell’altro. Esattamente come capita alla ragazza del primo racconto “Favola”, che a una spaventosa cena di famiglia non riesce a capire con chi dei tre ragazzi seduti a tavola è fidanzata o dovrebbe fidanzarsi. L’atmosfera tocca l’horror senza immergervisi dentro quando, accanto ad arrosti e tovaglioli appena appena unti, tra l’incalzante impazienza dei genitori che vogliono che la figlia scelga subito subito un pretendente e si leghi a lui con promesse destinate a non essere mantenute, cominciano a volare coltelli da cucina.
La sicurezza degli oggetti è infranta. La protagonista è attonita perché non ricorda di avere mai promesso nulla a nessun ragazzo, ma deve difendersi da un attacco. Il bisogno d’amore potenzialmente genera morte.
Capita che la brillantezza tagliente di un trinciapollo d’acciaio inossidabile diventi un’arma, specialmente di fronte alle aspettative deluse.
Dove si disfa l’amore. Dove iniziano a parlare tra loro i nostri fantasmi.
Dentro casa, se vogliamo possiamo costruirci vite di carta velina, di filo sottile, di zucchero a velo, materiali che crepitano al tocco o s’imbarcano per l’umidità come pagine di giornale sotto i nostri soffitti. Possiamo essere chiunque e il nostro disfacimento somiglierà a una delle tante cose che rotolano per casa come biglie in attesa di essere trovate, abbandonate, perse, dimenticate.
Le mani che stringono la pagina diventano luce nel leggere queste parole.
Riemergiamo dai conflitti, nell’illusoria protezione delle nostre case.
Ogni ragazza (perché le protagoniste sono tutte ragazze di età indefinibile, e tutte avide di speranza) sembra sempre la stessa ritratta in diversi scatti. E forse lo è.
Nel racconto “Meduse” una ragazza accetta un passaggio in moto da uno sconosciuto per vedere un angolo di spiaggia paricolarmente limpido, dopo aver avuto un momento di stizza con il suo ragazzo. Sulla moto, in bilico tra lei e quest’uomo stanco, più che tensione erotica c’è l’impacciata indecisione di due che potrebbero piacersi ma sono troppo appensantiti dai reciproci bagagli emotivi. Potrebbe scattare una scintilla, ma quello che accade è molto più complicato: lei capisce di essere diventata adulta tra le meduse bianco azzurrine, così belle e delicate e capaci di avvelenarla a morte.
Questo è il rapporto ambivalente tra bellezza, sentimenti, e vita. Quello che amiamo può portarci in un luogo di smarrimento e di estraniazione così totale, da cancellare ogni traccia di possibile normalità. Ammesso che una forma di normalità sia possibile, e non sia anche questa una convenzione creata per controllarci.
In “Sangue finto” alla protagonista capita di trovarsi a una specie di cena con delitto, solo che improvvisamente asce autentiche e nate dal cielo cominciano ad uccidere gli ospiti. E noi le crediamo. Crediamo talmente a tutto che, forse, a una cena con delitto racconteremo questa storia, guardando con un filo d’ansia, se qualche cosa di strano non ci stia atterrando addosso.
Ci sono volte in cui il semplice essere al mondo equivale a strofinare la pelle nuda sulla carta vetrata, in cui ogni tipo di movimento produce un’abrasione, lasciandoti ferito e vulnerabile alla prossima aggressione. Quando capita preferisco chiudere gli occhi e restare immobile come i bicchieri o le candele o il pane sul tavolo, abbandonata, esposta.
In questo mondo è solo una convenzione che le cose non prendano vita, perché in altri mondi, leggermente più impalpabili del nostro, invece accade. E non possiamo impedirlo.
L’unica cosa da fare è accettare tutto quello che si sottrae alla logica.