“In altre vite tutto quello che ho perduto torna da me” di Courtney Sender – Traduzione di Marina Morpurgo (Giuntina)

Nessuna storia d’amore è mai fatta soltanto d’amore, ma spesso di tutte le rinunce e le paure e i compromessi che subiamo per poterci tenere accanto la persona che crediamo di amare.

La solitudine e l’abbandono e la ferocia, tutte facce della identica difficoltà di amare, sono il tema di questa raccolta di racconti. I protagonisti e le protagoniste sono vividi oppure sconfitti, o rassegnati o furiosi, ma sempre in cerca di colmare il vuoto, la fame divorante della difficoltà di amare e, dopo, di trovare un equilibrio nella storia d’amore. Perché nessuna storia d’amore è mai fatta soltanto d’amore, ma spesso di tutte le rinunce e le paure e i compromessi che subiamo per poterci tenere accanto la persona che crediamo di amare tra tutte quelle che abbiamo toccato, e da cui ci siamo fatti toccare. Toccare il corpo non è mai abbastanza però. Siamo, e sono, tutti in cerca di qualcuno che ci tocchi l’anima.

C’è una ragazza che aspetta i suoi ex, e si lamenta che nessuno di loro ha tenuto abbastanza a lei da restare, e lei avrebbe modellato la sua vita sui bisogni e i desideri di chi tra loro l’avesse scelta. Ma alla fine la scelta migliore è sempre accettare le contraddizioni, decidere di meritarsi, anche da sola, un lieto fine.

E meritare di volersi bene, anche senza un uomo accanto, è quello che succede a Dinah che, dopo aver penato e sofferto per una relazione con uomo sposato, quando finalmente lui si decide, dopo anni, a lasciare la moglie, capisce che non voleva ritrovarsi intrappolata in un ruolo. Perché il miraggio della vicinanza è destinato a scontrarsi con il desiderio mai quieto di un traditore seriale, una persona non monogama, che apprezza le donne solo quando gli si negano.

C’è qualcosa negli amori inconclusi che li rende sempre vivi, anche a distanza di tempo. Per chi è rimasto, arido, a contare notti di insoddisfazione e delirio, il tempo si arresta, in attesa. È quello che accade a Bridget e Kaye.

Kaye è un’artista che cerca di vendere i suoi quadri, e Bridget l’assistente in una galleria d’arte. Appena Bridget la vede capisce di provare qualcosa, anche se prima di lei non le sono mai interessate le donne. Vivere insieme dà una scansione del tempo differente per entrambe: Bridget ne sente il peso e Kaye vuole divorarlo, inghiottire tutti i segreti e gli ex di Bridget, in un bisogno spasmodico di assolutezza che Bridget non può garantirle. Quando Bridget le confessa di non riuscire a tenere salda la sua passione, e di non poterla amare in maniera incondizionata, sole in mezzo ai boschi, tra i dischi e le more e la panna portata dal padre di Kaye, la storia si interrompe. Bridget finisce per andarsene, allo stesso modo svagato e furtivo in cui è arrivata, ma la sua vita va avanti, si sposa con un uomo e finisce imprigionata esattamente nella rete di protezione e sicurezza che voleva, mentre Kaye si ritrova a nutrire l’assenza dell’amata, trasformando l’attesa rabbiosa nella sua unica ragione di vita.

Quando sarà Bridget, dopo anni, a tornare, Kaye la rifiuterà, almeno inizialmente, perché sa di non poterla più amare con la dedizione assoluta che avrebbe avuto se non fosse mai stata lasciata. Le crepe sono evidenti ma forse è possibile accettare le reciproche oscurità. L’amore non è fatto per persone perfette, incrollabili.

L’amore è anche frutto di piccole, minuscole salvezze.

Una ragazza rinchiusa in un campo di concentramento viene salvata da una Guardia, che le dà pane duro ed è avido di sentire le sue storie, della vita precedente, quando era una curatrice d’arte ed era stata in una classe alla scuola d’arte con Hitler. La consapevolezza dell’incapacità di lui di essere un artista (un agrimensore, una persona priva di talento, buono solo a fare schizzi posticci) è uno dei motivi che la tengono in vita, nell’orrore indescrivibile del campo, dove la differenza tra la vita e la morte la fanno quei pezzi di pane duro e il latte semi inacidito, che prende dalle mani del Mostro. Quando il campo verrà liberato, grazie alla sua conoscenza dell’inglese parlerà con un cronista americano che, a fronte dell’orrore e della morte offerta a perdita d’occhio, sconvolto dal suo copro scheletrico, le offrirà una caramellina, l’unico cibo che ha in tasca. Quell’offerta per lei è, di nuovo, la consapevolezza che non esisterà più una normalità. Quella caramellina, con il suo zucchero cristallino, è un cibo inutile, quasi ridicolo, ma è la cosa che quell’uomo, sazio di altri pasti, aveva a disposizione. Certe volte quello che possiamo offrire non è adeguato a saziare la fame, reale e metaforica, di chi ci guarda e non ci tocca.

Un uomo ebreo lascia che sia la moglie a far crescere i loro tre figli (due ragazzi e una ragazza) nella religione cristiana. E quando tutti e tre, anche la piccola, si arruolano nei marines per motivi diversi, lui passerà il tempo a scendere a patti con la paura continua e costante che possa capitargli qualcosa. E quando un soldato viene a bussare alla sua porta per riferirgli della morte di uno dei tre in servizio, il suo dolore trova la strada del pianto disperato. E si chiede se non avrebbe fatto meglio a crescere i figli nell’ebraismo, in una fede dove Dio non ha nessun figlio da offrire in sacrificio.

Una nonna non più in questo mondo chiama i suoi tre nipoti, Olivia, Dinah e Isaac, per dire loro quello che è la verità più semplice e sottovalutata di sempre: abbiamo bisogno di un villaggio per stare bene, di stare insieme a persone che ci capiscano. E che loro tre, sono il villaggio l’uno per le altre. Per sempre.

 

“Padre mio, penso. Qui, per un istante, ti offro il dono della mia felicità. Esaminala da ogni angolo, sbircia attraverso le nostre labbra e i gomiti, sorridi al mio sorriso, metti un disco su un piatto girevole d’aria, guarda come sono cresciuta fino a diventare l’immagine della moglie che hai abbandonato.

Il sole scivola tra le stecche delle veneziane. La donna che ho tanto desiderato si distende sopra di me come una lunga galassia.

«Bridget – dico -s pero che tu sappia che non ti amerò mai come ti avrei amata.»

«Capisco», dice. Ride. «Amami come sei disposta a fare, e basta»”.

 

 

 

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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