Alla polvere

Un'eredità pesante, un segreto con cui fare i conti, si svela fra i corridoi della biblioteca Joanina.

Nonnina. Se non fosse per te non mi interesserebbe nulla di questa storia.

Entro però, ci devo entrare. Come potrei non farlo? Nonna mi ha lasciato questa roba, sia mai, noi di Nazarè onoriamo sempre chi non c’è più.

C’è questa porta intarsiata che mi fa pensare che, se ci entro, torno indietro nel tempo.

Che tipa che era nonna. Vissuta per 97 anni sul mare. Mettici pure che è quasi primavera e la terrazza della biblioteca Joanina dà su tutta la città di Coimbra e il sole scalda le ossa. Alla fine non è tanto male qui, pure meglio di Lisbona mi sa. Ma i soldi stanno là. È che mi manca Nazarè. Le onde, la spuma in cielo, l’energia. Entro va’, che sono sempre di corsa, persino oggi che sto qua per nonna per questa cosa che ancora non ho capito. Devo rientrare a Lisbona presto, che attacco a lavorare alle ventidue, che quello stronzo di Agostinho mi scala i soldi altrimenti. In quella macelleria di merda. Dai che taglio carne, carne e sangue. Secondo me ad Agostinho piace pure. Vabbè che a me non dispiace. Mi sono pure dovuto pagare il viaggio, che nonna non aveva un euro.

Vabbè, forse esagero. Povera nonna, mi manca come le onde di Nazarè che da bambino mi riempivano gli occhi.

Attraverso la piccola porta, non quella enorme che mi evocava le biblioteche da film. Quella è l’uscita. Entro dalla porta d’ingresso per chi ha il ticket online.

Mostro il biglietto sul telefono, quest’uomo scuro con i denti gialli, la maglietta dello Sporting Lisbona, ’sto sfigato, e uno scanner legato al collo mi fa cenno di entrare. Il posto è questo. Il notaio, all’apertura del testamento, mi ha consegnato questo verbale. Con la morte di nonna divento proprietario di un tomo storico della biblioteca Joanina di Coimbra. Mia nonna lo ha lasciato proprio a me, l’ultimo vivo della famiglia. Mia madre, sua figlia, è morta di parto. Per colpa mia, anche se nessuno lo dice. Cerco in tasca, tasca dietro, lo tiro fuori. È ingiallito il verbale, poi scritto a penna. Boh. C’è pure la lettera allegata che ancora non ho letto. Devo leggerla, credo. C’è tempo in biblioteca o dopo. Sono curioso, ma le ultime parole di nonna voglio leggerle a compito eseguito, il mio modo di dirle addio per sempre. E se non si sbrigano qua a trovarlo, gli dico che io sono di Nazarè e che sono cresciuto tra le onde, che fa sempre un certo effetto qui da noi. Mi viene da sorridere. Ma poi che volume avrà lasciato nonna? Sono curiosissimo, mi sfrego le mani.

Supero il controllo. A destra, dice un cartello, c’è la prigione. A sinistra la biblioteca. A sinistra la scala che va su, sale verso una porticina di legno, a destra c’è un passaggio senza porta, da cui intravedo una sala spoglia.

L’uomo con lo scanner è sparito. Sono l’unico visitatore. L’ingressetto ha sul muro davanti a me dei segni, piccoli incavi che mi sembra siano fatti con uno scalpello. Riguardo a destra, poi a sinistra. Cerco il telefono. La visita dura venti minuti. Io dopo la visita, all’uscita, devo chiedere del tomo, magari vale pure qualcosa. La visita me la faccio al volo, questa storia del tomo mi uccide di curiosità.

Sei stato dentro la biblioteca più antica d’Europa e non hai fatto il giro dentro, avevi la fretta dei ragazzini?

Io sono di Nazarè, rispondo se mi dicono qualcosa. No e no. Mi vedo pure la prigione, a questo punto sto qua, non posso essere sempre il tipico “surfista”superficiale. Me la giro, me la godo, un regalo di nonna ecco, mi connetto con lei. Il telefono non ce l’ho più in tasca, mi tocco, non è neanche nella giacca. Tocco i pantaloni con le tasche, quelle dove di solito metto i documenti quando viaggio, niente. Non c’è più niente.

La saggezza, dice la scritta sul muro sopra i buchetti fatti a mano, ha costruito per te questa fortezza.

Ah però.

Tocco tutte le tasche surfando con le mani. Niente. La porta da cui sono entrato, dove l’uomo mi ha fatto cenno di procedere, adesso è chiusa. Forse si chiude da sola dopo aver fatto entrare i visitatori. Il visitatore, in questo caso. Devo chiedere a qualcuno di aiutarmi con telefono e documenti, forse mi sono caduti. Ma il telefono lo avevo in mano. Apro la porta, muovo la maniglia, si incastra. Spingo con più forza ma resta bloccata, non scorre. Busso piano, temo di sembrare maleducato ma in effetti sono da solo chiuso in un luogo pubblico, amen. Busso forte, grido:

– Aiuto!

Non abbastanza convinto. Mi chiedo se sono davvero in pericolo. Alla fine il luogo è pubblico, mi apriranno.

Mi apriranno, dai. Busso, do pugni alla porta. Ci sarà un’uscita d’emergenza.

O forse no, forse sto sognando. Mi do due pizzichi sulle guance, due schiaffi, mi strofino il viso. Mi siedo. Chi me l’ha fatto fare? Qua a perdere tempo. Il pavimento in legno è duro, mi appiattisce il sedere e la schiena si curva. In mano ho solo il verbale per il ritiro del tomo e la lettera di nonna. Ora davanti ho la porta d’ingresso sbarrata. Non mi resta che l’entrata per la prigione o quella per la biblioteca. Forse è il caso di andare dritto verso la biblioteca.

Se poi non torno e mi perdo? Chissà quanto è grande. Forse meglio aspettare qui. Ci vogliono due ore per Lisbona, madonna santa ho da scuoiare le tre vacche di Pedro e rompere le teste di agnello. Agostinho mi uccide.

Piangere non piango, ti pare? Poi, però, le mani mi formicolano. Che fastidio. Un odore di muffa mi prende il naso, bagna le narici, la testa diventa pesante e poi tutto si fa buio.

 

Il prigioniero

Il giovane uomo avanza a calci. Ha i piedi nudi, le caviglie rosse di sangue rappreso. Avanza ogni calcio di due passi. Non vede del tutto per via del buio e per occhi gonfi e bollenti. Il resto del corpo ha freddo. Nei cunicoli della prigione fa freddo. Vede le mura grigie, sfocate; in fondo è buio, la luce arriva da qualche lanterna appesa al soffitto. Prende un calcio sul coccige, dritto, di punta. Avanza ancora strusciando i piedi.

Una porta, arrugginita, cigola e viene aperta. Il ragazzo spinto dentro non sente dolore, per quanto tutto il corpo sia diventato un puntaspilli. Due mani grosse, calde, premono sulla sua schiena quanto basta per farlo cadere a terra. Di nuovo il cigolio e la porta si richiude.

Le pietre lisce sulla pancia gli raffreddano ancora di più la pelle. Vorrebbe strusciarci i bulbi pulsanti che sono diventati i suoi occhi per le botte. Si gira, ci prova. Struscia il corpo come quello di un verme. Sulla pelle violacea, con la giusta pressione, fa in tempo a fermarsi un istante prima del dolore. Dopo qualche prova, quel fresco sugli occhi in effetti lo rinfresca.

Scotta così tanto la carne, che non ricorda come abbia fatto a finire lì. Ma sa che non parlerà del libro. Crede poi, senza quantificare quanto, di essersi addormentato e, in effetti, il sonno lo ha avvolto per diverse ore.

Non c’è distinzione dentro la cella tra il giorno e la notte. Ma il libro lo visualizza bene, al sicuro. Ma non importa adesso. Conta solo il dolore degli occhi a fessura che, dopo il sonno, sono appiccicati tra sangue rappreso e croste. Per aprirli deve passarci le dita, piccole e fredde, con delicatezza, fino a sentire l’aria passare dentro e svegliargli i bulbi. Il sinistro sta messo meglio del destro. Lo capisce non tanto dal bollore più tenue a sinistra, ma perché ci vede meglio.

Ecco, il libro, sì. Non serve più averlo.

Si chiede, mentre tenta di alzare carne e ossa, se merita o meno di essere dove è, conciato come è.

Seduto spalle al muro, prova ad ascoltarsi. Respira giusto per capire se qualcosa è rotto. A tirar dentro l’aria tutto ok, a tirarla fuori, tra le costole, cresce e pulsa il dolore. Però respira.

Se l’occhio sinistro si abitua al buio, non ci sono feritoie o luce, l’unica fievole illuminazione arriva da due sbarre incastrate nella porta di legno, l’occhio destro tanto vale non aprirlo proprio.

Il soffitto è a cupola. Le mura intorno, a rettangolo, creano lo spazio per un letto e un pisciatoio. Ma non ci sono né un letto né un pisciatoio. Non c’è nulla. Chissà per quanto lo rinchiuderanno lì, chissà per quanto tempo la memoria giocherà dalla sua parte. Tocca le mura, sulle mani scivolano lisce e fresche. Sfila per tutta la stanza e il muro si interrompe solo quando incontra la porta. Gira più volte intorno al rettangolo, abbassandosi ogni volta un po’. Al quarto giro tocca la fine delle mura, dove si incontrano con il pavimento. Passa le mani morbide, sembra addirittura pulita la cella. Tutto omogeneo, tutto simmetrico. Solo sul muro opposto alla porta, c’è una piccola fessura proprio dove il muro incontra il pavimento. Ci entrano a malapena le dita. Continua il giro, ancora una volta omogeneo. Non c’è altro oltre la fessura. Deve infilarci le dita.

L’occhio si è ormai abituato, la cella è a tutti gli effetti priva di accessi oltre la porta. Quella fessura sarà il buco asimmetrico delle pietre; l’aria è colma di umidità e gli bagna i polmoni. Sente un sibilo, un soffio appena accennato, guarda la fessura e si avvicina.

 

Il re

Il Re João è in sala, nessuno può entrare. Fuori il temporale imperversa, i rami degli alberi roteano come fruste. Il Re João non vuole essere disturbato, non vuole essere visto in quelle situazioni. Lui è il Re illuminato, di certe questioni peccaminose è bene non discutere. Siede su una grossa poltrona rossa dentro la biblioteca. Joanina si chiamerà, e passerà alla storia, sarà la più bella, la più grande ma soprattutto la più fornita. È quasi pronta.

– La cultura è pericolosa, – dice alla donna in ginocchio davanti a lui, – La cultura ti rende potente, la devi condividere o è come il denaro, ti incatena. Ma tu che ne vuoi sapere.

Intreccia le mani grandi dalle dita larghe tra i capelli della donna.

– Questa fortezza è il mio pargolo, è il mio biglietto per l’eternità. È costruita intorno alla conoscenza, – sospira. – Ho letto più della metà di queste migliaia di toni.

Preme la mano con forza sulla nuca della donna, che ha un conato di vomito.

– Questo è inammissibile per un Re.

La guarda.

Preme con ancora più forza. Un gorgoglio esce dalla bocca della donna. Re Joao tira la indietro la testa. La sala ha un soffitto alto a cupola in cui il legno è dipinto come fosse marmo. Rotea la testa seguendo il calore del ventre, migliaia di libri ruotano con lui.

La mano preme, le gambe del Re João si stringono attorno al collo della donna.

Intarsi e dipinti, scaffali pieni, oro a sorreggere le navate. Joanina è la biblioteca eterna, la più bella. Il Re stringe ancora le gambe e sembra fare ancora più forza.

Manca un libro. L’unico. Filosofia, botanica, storia e alchimia. Storia e botanica completi, tomi da tutta l’Europa dei secoli ’600 e ’800. Anche la filosofia è completa. Ma non l’alchimia.

Stringe le cosce, la donna geme, respira a fatica. Deve ritrovare quel libro. Non ha alcun interesse per la gloria che la costruzione della biblioteca gli garantirà, il suo cuore sa che è incompiuta, lo sarà per sempre. Nessuno lo scoprirebbe ma lui sì e altri Re, forse un giorno, potrebbero scoprirlo. Magari gli inglesi. O ancora peggio gli spagnoli.

La rabbia, se fosse liquida, si mischierebbe ora al calore che sale sul petto del Re, scivola sotto la pelle solcata da brividi.

L’umiliazione, pensa, di aver creato una cassaforte di cultura, di migliaia di tomi meno uno, deve essere pagata da altri.

Questa cortigiana, con qualche accenno di baffo, il volto tuttavia luminoso e il grosso seno, è una delle tante. Non verrà di certo ricordato per questi capricci, dopo aver creato la biblioteca che racchiude il sapere dell’Occidente tutto.

Ma quel libro.

Come una furia, esce fuori dalla bocca della donna giovanissima, si stringe i testicoli e per un istante, il tempo di chiudere gli occhi e il libro mancante scompare, diventa liquido e ricopre con bordate calde il volto di lei. Subito dopo, di nuovo, il freddo della frustrazione gli rimpicciolisce l’orpello fino quasi a farlo sparire.

La donna resta in ginocchio con gli occhi chiusi, il Re sgrulla il piccolo pezzo di carne molle, si ricopre della palandrana reale. Estrae la spada. Con un movimento veloce, sciabola la lama in aria. La testa della donna si stacca dal collo al primo colpo e rotola a terra. Qualcuno ripulirà tutto. Il Re si allontana dal corpo mutilato.

Il libro sembra sia nelle mani della famiglia di alchimisti borbonici più antica d’Europa. Lunghi viaggi per raggiungerli e trattare, lunghi inverni di attesa e ingenti somme d’oro proposte. Ma in tutto il mezzo secolo di fine 1200 d.C. a nulla sono valsi i tentativi. Gli basterebbe una copia, purché sia completa di tutte le informazioni.

Il Re João fa cenno a una guardia di ripulire e far sparire il corpo.

La biblioteca Joanina passerà alla storia, fortezza di cultura e dei vizi del re.  Solo lui porterà con sé il segreto dell’incompiutezza e del vizio.

Esce dalla grande sala per recarsi in quelle che un tempo erano prigioni. Lì dove ora alloggiano i frati, in cerca di ristoro per l’animo.

 

Il prigioniero

La porta cigola, si apre. Il prigioniero non ha idea di quanto tempo sia passato. Forse una notte. Forse una notte e un giorno. Una guardia lo prende per le braccia, poi gli prende il volto. In galeico-portoghese grida:

– Scrivi. Tutto.

Il prigioniero muove il collo in segno di rifiuto.

– Scrivi. O verrai decapitato.

Il prigioniero continua a scuotere la testa.

– Carta e penna. Hai una settimana.

Il prigioniero ricorda tutto a memoria. Ogni formula, ogni passaggio. Chiuso nella cella di pietra, avrebbe potuto ripristinare tutto il trattato. Non se ne farebbero nulla uomini più vicini alle scimmie per intelletto di tale conoscenza. Ma lo uccideranno qualsiasi cosa faccia.

Inizia a scrivere. La luce appena presente gli permette di vedere le ombre delle parole, dei disegni. Ricorda tutto. La mano scrive, scrive fino a che il polso inizia a dolere. Il prigioniero non vuole addormentarsi, scrive le prime sei pagine vergando il primo foglio con la data del 1200 d.C. E resta in attesa. L’indomani, che all’interno della cella è scandito solo da un aumento, visibile solo a un occhio allenato, della luce che arriva dalle piccole grate sulla porta. Il prigioniero è seduto schiena al muro, bisbiglia formule con la bocca piena.

La guardia entra, il cigolio permette qualche secondo di tempo al prigioniero.

– Hai scritto?

Il prigioniero mastica.

– Apri la bocca. Subito.

La fiaccola illumina il corpo della guardia. È chiuso dentro un’armatura leggera. Un elmo raffigura la rosa dei venti e una grossa croce sul petto.

– Apri!

La fiaccola e la fiamma si muovono in aria e finiscono sul volto del prigioniero. Il ragazzo cade a terra con la bocca spalancata. La pietra è ancora fredda sulla sua pelle. La guardia prende il pezzo di carta sputato dal prigioniero.

– Che volevi fare? Infame.

Il prigioniero resta in silenzio, a terra. La testa gli pesa per lo scontro con la pietra.

La guardia raccoglie la fiaccola e controlla il calamaio. L’inchiostro risulta finito, ne restano poche gocce nella piccola boccetta nera. Anche la carta non c’è più.

– Prendi. E scrivi, sappiamo che ricordi, quindi scrivi o la tua testa verrà tagliata.

La guardia tira altra carta al prigioniero.

Così per una settimana, fin quando il prigioniero non scrive la fine. L’ultima formula completa di procedura per la pietra filosofale. Il prigioniero si alza in piedi appena sente i passi della guardia. Prende le carte scritte fitte, con una scrittura storta ma precisa, contornata da disegni esplicativi delle formule. Le piega, si spoglia dello straccio di pelle che ha intorno alla vita. Sente le chiavi girare dentro la serratura.

Ricopre le pagine nel cuoio fino e infila tutto con attenzione dentro la fessura tra pavimento e muro. C’entra a malapena. Tiene per sé solo un foglio di scarabocchi.

La guardia entra accompagnata dal cigolio della porta. Insieme a lui c’è un uomo grosso, più alto della guardia. Indossa un cappuccio, in mano ha un’ascia dal bastone alto quanto il prigioniero.

– Hai scritto?

Il prigioniero apre la bocca e mostra il foglio bagnato di saliva e ride.

– Lo hai voluto tu.

La guardia fa cenno al boia di avanzare.

– Arriveremo un giorno al tuo maestro. Per ora il segreto morirà con te.

Poi alza il braccio, fa cenno con la mano di tagliare la testa.

Il boia, illuminato dalla luce della torcia, solleva l’ascia.

Il prigioniero alza la testa, illuminato dalla torcia ha gli occhi verdi che brillano, la pelle olivastra e i denti anneriti, è nudo. Lo sguardo è perduto e fiero allo stesso tempo. Privo di paura, grida:

– Il libro è e sarà qui per sempre, il maestro è morto e maledetto chi oserà avvicinarsi per i prossimi mille anni a questa cella in cerca del mistero.

L’ascia si abbatte tra la sua testa e le sue spalle, decapitandolo.

Come una fonte che spilla acqua, il sangue zampilla dal collo aperto del prigioniero intorno alle mura della cella, cola sull’armatura della guardia e sulla tunica del boia e colora di rosso tutto il pavimento.

 

Il Re

Re João batte i pugni sul muro. Si muove per le stanze dell’ex prigione. La pace di quei luoghi sembra lo abbandoni man mano che la biblioteca Joanina è pronta. Tutti i preti sono usciti. Un’unica stanza, piccola, in pietra è usata come studiolo dai pellegrini. Studiolo. Studiano all’ombra della sua ricchezza, della ricchezza di un Re spietato, certo, ma un Re che ha eretto il tempio della cultura più imponente d’Europa. Tutti devono goderne. Tutti.

E manca un libro. Il manuale d’Alchimia più importante di sempre. Re João desidera la cultura tutta per il popolo portoghese, desidera essere ricordato come un Dio che ha donato la conoscenza al volgo. Prende la sedia in legno, piccola, ordinata sotto al tavolo e la scaglia contro il muro. La sedia si spezza in due. Alza il piccolo tavolo da cui saltano croci, rosari, libri appoggiati alla rinfusa, saltano mentre si spezzano le gambe del tavolo. La furia inarrestabile si scaglia contro la piccola libreria addosso al muro. Altri libri saltano, gli occhi del Re João riflettono il caos della stanza come un caminetto riflesso in un vecchio specchio.

E pensare che lì, secoli prima, venne giustiziato proprio il pupillo, l’allievo diretto dell’Alchimista che scrisse il libro sulla pietra filosofale. Al pensiero, la pelle del Re si scalda.

La libreria Joanina vanta migliaia di volumi. In tutta Europa il Re João ha raccolto tomi. Botanica, Filosofia, Alchimia, Storia. Ogni categoria, per volere suo, segue una regola di rarità dei libri. L’apice della sezione Alchimia apparterrebbe al Corpus Hermeticus di Ermete Trismegisto. Quel volume completa la collezione a disposizione del presente e del futuro. Lui ha fatto inserire un libro di alcun valore al momento, fingendo sia l’opera prima d’Alchimia. È troppo vecchio per poter sperare di ottenere la conoscenza suprema.

– Morì qui dentro, – grida il Re João, – Lo giustiziarono e invece di strappargli la verità dall’intestino, lo decapitarono. In questa cella!

Scaglia i libri in aria, prende un pezzo di tavolo, una gamba e lo abbatte sui resti dei volumi e della sedia. Alza con tutta la forza che ha in corpo, per i suoi ottanta anni di vita ancora vigorosa, il baule con dentro le palandrane dei preti pellegrini. Lo alza, rovescia il contenuto. La fiammella della piccola lanterna sul tavolo si rovescia, prima di spegnersi, carbonizza una piccola striscia di muro a terra.

Il Re si ferma. Incuriosito, si avvicina e sente odore di sangue rappreso; sciolto dal calore, il liquido scopre una piccola fessura.

– Portatemi una torcia, subito. Ho trovato qualcosa! E andate via. Via!

Gli viene passata una torcia, il Re non guarda, preso dal caos della cella, la guardia che gliela porge. Prende il legno e si gira.

La stessa mano che gli ha dato la torcia, subito, lo spinge. Il Re João perde l’equilibrio e cade a terra. La fiaccola vola e cade, spargendo cenere e fuoco. Appicca il fuoco agli abiti, alla sedia. Il calore divampa e sale sfiorando le pietre fredde fino al soffitto.

Il Re João apre la bocca e grida. Poi si gira, si aggrappa alla porta.

La porta non si muove. La strattona. La spinge e la tira.

Resta chiusa dall’esterno.

– Aprite! Aprite! Vi farò decapitare tutti. Tutti! Apri, guardia, boia! Aprite!

Nessuno risponde. Il fumo riempie la cella. Re João si tocca le mani, i libri bruciano, il legno inizia ad ardere e si mischia al fumo che odora di ciliegio.

In ginocchio, il Re porta le mani al collo, il fumo grigio gli occlude la gola. Si muove per alzarsi, ma le gambe non rispondono. Dalla piccola grata intravede due occhi che si stringono:

– Il libro è e sarà qui per sempre.

Il Re cade a terra, il rumore delle ossa del cranio sulla pietra supera il crepitio del fuoco. L’ombra dietro la porta svanisce.

 

Mi alzo, la testa mi gira. Mi tocco i pantaloni, ho di nuovo tutto con me, telefono e documenti. Devo essermi sentito male, il forte odore di umido. Forse un attacco di panico, di quelli che non sai spiegare bene, ce li hai e basta e non capisci più niente. Va tutto in tilt e bum. Telefono e documenti sono sempre stati con me. Eccoli, sì, sì.

Mi siedo. La porta d’uscita è aperta. La maglietta ce l’ho appiccicata alla pelle, sudata.

La lettera di mia nonna. Non l’ho ancora letta, direi che è il momento. Testa di gallo, mi direbbe lei. Provo a leggerla? Seduto a terra, la prendo tra le mani. A questo punto la apro.

 

Caro nipote mio,

questa lettera passa nelle tue mani ora che io non ci sono più. È bene tu sappia oggi che erediti qualcosa di importante.

Non c’è nessun libro che ti aspetta alla biblioteca Joanina. Non è quella l’eredità. C’è molto di più.

Tu non lo sai, nessuno in vita oltre me ormai lo sa e ora spetta a te custodire questo segreto.

Noi siamo eredi di una dinastia di boia. Forse sorriderai oggi. La nostra famiglia, per secoli, ha ucciso persone: colpevoli, innocenti, traditori, untori, uomini, donne. Gli uomini della nostra famiglia sono boia dall’epoca medievale.

Custodisco io questo segreto adesso, perché figlia unica, come la tua povera mamma morta di parto, ma non posso avvicinarmi per un motivo di tempo, come tutte le donne e gli uomini della nostra famiglia prima di me. Ho disposto questo testamento alla tua nascita. Questa lettera sarebbe finita solo in mano tua, se fossi morta quando eri bambino avrebbero dovuto attendere la maggiore età per consegnartela.

Un tuo avo decapitò l’allievo diretto, il pupillo di Ermete Trismegisto, il più grande alchimista di tutti i tempi. Avvenne in quelle che ora sono sale museo, ex prigioni aperte al pubblico. Un tempo, prima che Re João, il Re che voleva la cultura per il popolo, non fece costruire la biblioteca Joanina di Coimbra, lì c’erano solo prigioni.

Il giovane allievo, da quanto viene tramandato dai nostri avi, sul punto di morte, maledisse per mille anni chiunque si fosse avvicinato alla cella in cerca di prove della stesura del Corpus Hermeticus. Dopo la decapitazione ci furono un susseguirsi di conquiste di Coimbra, vari popoli passarono di lì e la cella venne bandita e abbandonata, ripristinata solo secoli dopo da Re João, come dimora di preti pellegrini di passaggio a Coimbra. Re João morì proprio in quella cella e solo i nostri avi intuirono il motivo, la sua morte venne liquidata come un incidente. Ma fu la maledizione. La biblioteca Joanina mancava solo della copia del libro perduto di Ermete Trismegisto. L’allievo del maestro, come scrivevo all’inizio, venne ucciso da un pronipote del nostro avo, per volere dei cavalieri che lo tenevano prigioniero. Ventidue anni fa sono scaduti i mille anni. E tu sei fuori da questo conteggio, puoi accedere alla conoscenza. Non temere, non sono le follie di una vecchia pazza, segui le mie istruzioni.

Cerca nella cella, deve esserci un meccanismo, qualcosa per poter accedere a quanto scrisse il pupillo prima di essere decapitato.

Egli gridò davanti al boia, il nostro avo, che il libro era lì e sarebbe rimasto lì per sempre. Gli scritti lasciati in eredità alla nostra famiglia dicono che l’allievo scriveva e ingeriva la carta per burlarsi delle guardie, e che non lasciò nulla.

Ma si tramanda anche del suo sguardo prima di morire, prima che l’ascia del tuo avo gli tagliò la testa, il giovane guardava in un punto preciso del muro. La guardia che lo teneva prigioniero morì poco dopo, e con lui anche questo segreto. Il tuo avo non si avvicinò più alla cella e la nostra discendenza è l’unica ad avere custodito questa informazione.

Fai così: recati alla cella più piccola, dovrebbe essere l’ultima a sinistra senza uscite. Sentirai una pressione, la sensazione di costrizione e oppressione dovuta alla dimensione esigua della cella e alle pietre. Cerca. Tocca i muri, tocca tutto. Forse in basso, come in alto. Io credo a questa storia, credo alle carte ereditate che ho letto e ho bruciato personalmente per non rischiare finissero in mani sbagliate. Ho tenuto solo questa lettera che ora arriva a te.

Se trovi davvero qualcosa, devi ricordare di portarla subito nella biblioteca, dalla parte opposta della prigione. Quel libro deve essere sugli scaffali riservati all’Alchimia, posizionato in alto. La conoscenza è vana, ricordatelo, se non la si condivide o se la si cela per avidità. Non aprirlo, non leggerlo. Lascialo in dono alla biblioteca. Sia il pupillo che il Re commisero l’errore l’uno di voler custodire il sapere per sé, l’altro di volerlo divulgare per rimanere nella storia come un Dio. Fai la scelta giusta, nipote mio. La scelta giusta. Posizionalo dove deve stare e in cuor tuo saprai che la biblioteca Joanina è compiuta, o andrà tutto in fumo. Buona fortuna.

 

Non ho bevuto, non sono ubriaco, Agostinho non mi ha menato, non mi sono drogato. Leggo la lettera una seconda volta, piano. Mi alzo. Era pazza mia nonna? Mia nonna che mi scrive una roba del genere.

Mi guardo intorno: non è alta stagione, non c’è nessuno. Mi gratto il naso e mi aggiusto i pantaloni. Fa freschino. L’entrata delle prigioni. Ex prigioni.

Mi ci fiondo. Dio che roba, anche per uno di Nazarè, questa notizia è più potente di un’onda gigante di quelle nostre. Vero o no, ci provo, ma che mi frega. Nonna, nonna!

A questo punto vale la pena controllare. Sono piccoli i corridoi, mi sembra. Arrivo fino in fondo all’ultima cella. Che ansia, madonna. Pietre su pietre, è piccola, troppo piccola.

Io non ci credo che davvero sto cercando ‘sta roba, che neanche ho capito bene. Tocco le pietre, fredde. Tocco una pietra alla volta. Fredde tutte.

Ma che cazzo posso trovare qua dentro? Fortuna che non gira nessuno, sai che figura di merda, beccato a strusciarmi sulle pietre. Tocco a terra. Pensa se mia nonna, o qualcuno che l’ha tramandato, ha contato male. Magari è vero ma non sono passati mille anni e io muoio fulminato.

Sorrido. Doveva essere un libro e invece sto qua a rotolarmi dentro a una cella. Santo Dio. Speravo pure valesse qualcosa, il fantomatico libro ereditato. Mi mettevo due soldi da parte e via.

Tra muro e pavimento, tra due pietre, qualcosa è più morbido, diverso da tutto il resto al tatto.

Tiro fuori dalla tasca una penna. Vedi che mia nonna dice il vero nella lettera.

Sento dei passi. Cazzo. Se mi faccio trovare così sai che figura, rischio pure che mi buttano fuori. Mi alzo di scatto e metto le mani in tasca con tutta la penna.

Entrano due giapponesi. Con due fotocamere grosse più delle loro facce. Sorrido. Levatevi dal cazzo. Ma non si levano, vogliono che mi levi io. Ma non hanno capito. Io sono qui per conto di nonna. Di Trismes, Trimeg, Magistro o come cazzo si dice. Sono un pelino agitato e quando sono agitato dico troppe parolacce.

Prego, dico con gli occhi e con il movimento delle mani. Mi metto di lato.

‘Sto giapponesino mi fa cenno di scansarmi, di togliermi proprio. Sorride.

Bestemmio con gli occhi, che più o meno è mostrare più bianco possibile e far sparire le pupille. Esco.

Aspetto. Sento i click di almeno quindici foto. I due nani escono, mi sorridono e si perdono nei corridoietti.

Musi gialli fino qua in Portogallo.

Rientro. Penna alla mano, gratto ’sta fessura. Da che non volevo, ora sono eccitato come una scolaretta. Viene via una colla lattiginosa. Direi che sembra sangue rappreso, quello che vedi nei film. Boh. Vedi che ha custodito bene il segreto quel boia del mio avo e pure tutti quelli dopo.

Spero di non morire.

Via, viene via. C’è una fessura davvero. Dio santo.

Gratto la profondità di cinque dita o poco più. Sento la penna toccare il duro della pietra ai lati e mi fermo.

Ci metto la mano. Altri passi, cazzo. Mi alzo in piedi e mi giro e lascio i talloni appiccicati alla fessura. Una ragazza. Sola. Le sorrido. Lei mi sorride. Dà un’occhiata alla cella, a me, al soffitto e alza i tacchi. In effetti non c’è un cazzo qua dentro, a parte i miei occhi spiritati.

Bene. Mi fiondo a terra.

Infilo la mano con forza, sento il vuoto e poi le dita impattano qualcosa di solido, forse cuoio. Tiro l’oggetto, lo incastro tra le dita, lo schiaccio come posso e sfilo. Un pezzo di cuoio arrotolato e pressato viene fuori.

Nessuno in giro, avvicino il cuoio e lo metto sotto la felpa. Torno all’ingresso camminando per i brevi cunicoli a ritroso.

Lo apro. No, no, no, lo metto dove mi ha chiesto mia nonna. Come ha detto lei. Anzi, lo apro. Ormai la maledizione non vale più. Lo apro. Ma ha detto di no, cazzo. Cazzo.

Mi siedo nel cortile davanti all’ingresso. Respiro. Alla fine si tratta di scelte. Io voglio vedere cosa c’è dentro ma voglio pure lasciarlo lì, al suo posto finalmente, senza che nessuno sappia l’importanza del mio gesto. Questo è. Cazzo. Mi alzo. Però voglio sapere. Vedere. Sbircio e poi lo metto a posto. Mi siedo di nuovo.

Apro il cuoio. Sì, cazzo. È indurito da secoli, lo muovo piano fino ad aprirlo del tutto. La carta è una carta millenaria, sottile e delicata come cartilagine scoperta. Ma dopo mille anni al contatto con il sole e con il movimento, non più al sicuro nel cuoio, si frantuma in mille piccoli pezzi. Uno sbuffo di vento ne spazza via gran parte, come fosse polvere.

Mi alzo in piedi:

– No, no no no.

Intorno i pochi sul piazzale mi guardano.

– No, cazzo. No!

Nulla più, mi resta qualche angolino polveroso irrecuperabile. Resto in silenzio, seduto sul piazzale. Mi scende una lacrima mentre il sole inizia a calare dietro la collina che abbraccia Coimbra. La notte avanza e io ho mandato tutto quanto alla polvere.

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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