Cosa siamo quando smettiamo di essere corpi. Cosa fa di noi le persone che crediamo di essere, e come ci cambia lo sguardo degli altri che ci scivola addosso e struttura in parte le nostre relazioni con il mondo. Sono alcune delle domande che si pongono i protagonisti di questi racconti, tutti e tutte spinti da una meccanica di attrazione irresistibile verso altri corpi, quasi sopraffatti dalla fame e dal bisogno di saziare una sorta di crepa nell’anima. Il contatto fisico prelude a un contatto più intimo, il desiderio di mostrarsi per come si è davvero, svelati nella luce cruda delle nostre imperfezioni, quelle che chi ci sta vicino non vuole vedere perché è difficile affrontare la parte oscura e segreta dietro i ruoli di padre amorevole o moglie devota.
Lucia, giornalista appena assunta e pressata dal bisogno di ottenere consensi e visibilità dalla direzione, sfrutta un ricordo, un sospetto di pedofilia della sua infanzia, un volto indistinto dentro una macchina e trasforma quel ricordo in una possibilità che ai lettori del giornale sembra raccontare il presente. Quell’articolo genera successo e anche mostri in chi si erge a paladino della tutela del benessere dei piccoli, trasformando la sonnolenta provincia padana in cui vive in un luogo infettato dal sospetto e dalla paura, fino a sfociare nella follia. In attesa di un treno nel luogo e tempo sospeso sulla banchina, consapevole della responsabilità morale che le è caduta addosso, Lucia sa che non sarà mai più veramente innocente come “Eva prima della mela”.
Una famiglia felice, Silvia e Andrea, è testimone di un’aggressione dal balcone di casa e quello che era un momento di intimità e relax di tarda estate diventa la peggiore bolla di realtà in cui una persona possa piombare. Andrea viene aggredito e vive una forma di premorte. Quando si risveglia dal coma non è più la stessa persona, il suo corpo sembra posseduto da un’altra entità, la sua stessa voce sembra diversa, e questo nuovo uomo non ha nulla in comune l’uomo quieto e gentile che era prima dell’incidente. Silvia non riesce ad andare a fondo dell’oscurità del marito, se non provando a sua volta la fragilità del corpo, sentendo la sua propria fragilità, e solo allora sente che siamo tutti delicati e fragili, e forse la pelle che esibiamo nel mondo arriviamo ad amarla quando stiamo per perderla.
Un uomo anziano decide di mettersi in cerca del figlio volontariamente scomparso in giovane età e frugando in giardino trova una scatola dei tesori che il ragazzo aveva deciso di lasciare come ricordo di sé e del suo passaggio tangibile in questo mondo.
Il direttore di una filiale di banca scopre che non gli basta vivere una vita fatta di ruoli ingessati e devastanti come una gabbia, essere marito, padre e proprietario di oggetti e case è la finzione dalla quale deve liberarsi, perché tutta quella massa di doveri lo sta facendo impazzire. La sua libertà diventa una relazione sessuale trasgressiva con una donna in leggero sovrappeso, che fa le pulizie in banca. Sedotto dal cliché padrone-dipendente, quella che sembrava una evasione innocente, un gioco del tipo smetto quando voglio, diventa il suo momento di maggior benessere, la condivisione colpevole di atti sessuali non usuali per lui è il suo zohar (splendore). E più intensa è la gioia, più forte è il fragore del corpo in caduta libera, quando perde il suo appiglio.
Con questi racconti Paolo Zardi affronta la potente tematica del rapporto tra anima e corporeità, tra afflato cieco e bisogno di purezza, in un tentativo di far esplodere la materia di cui sono fatti i corpi, che non sono solo carne esanime, ma contenitori di vite e mondi, spesso sconosciuti. Sembra quasi un tentativo di oltrepassare la comfort zone del mondo sensibile, alla ricerca di risposte che forse non avremo, o non avremo completamente, fatti come siamo di mancanze e di grandi domande, mentre procediamo in questo mondo, a volte con umiltà, a volte con estrema tracotanza, incuranti dei confini stabiliti dai corpi degli altri, che pretendono a loro volta attenzione e visibilità.
“D’inverno le rotaie hanno una temperatura siderale, da abisso: se appoggi una guancia sopra, hai la sensazione che staccandoti, ci lascerai sopra una fetta di pelle.
Che ore erano? Che giorno? Che anno? Ho visto la locomotiva luccicare in lontananza, il muso proteso in avanti, solenne e marziale, tutta impegnata nell’obbedire al destino. È stato in quel momento che mi sono staccato da quel corpo, come se qualcuno avesse finalmente mollato la presa. Ho visto tutto, eppure era come se non fossi mai stato veramente lì: nessuna partecipazione, nessuno dei palpiti che avevano scosso quel corpo. Lontano da tutte quelle passioni così umane, eppure così vicino in ogni momento”.