CRONACHE DI UN TASSISTA ROMANO: Il volo del calabrone

Il racconto tragicomico di un incontro ravvicinato con un ospito poco gradito.

C’erano trenta gradi centigradi quel venticinque di giugno e se li sentiva tutti sulla camicia inzuppata di sudore dallo schienale del sedile. Aveva provato ad accendere il condizionatore, ma l’aria gli aveva causato un brivido di freddo e subito lo spense, quindi tirò giù i vetri dei finestrini davanti. Era diretto in un hotel al quale si arrivava facendo lo slalom per evitare le grandi buche e pensava che, forse, era stata proprio una di quelle la causa del problema alla convergenza della macchina. Si spostava di poco ma, soprattutto sulle grandi strade dove si poteva correre un po’ di più, era costretto a tenere il volante in posizione per evitare la tendenza a piegarsi verso destra. Era cosa da poco, ma lo infastidiva.

La coppia matura di venezuelani presi in hotel non aveva fatto richiesta di aria condizionata, quindi dalla pulsantiera del suo sportello provò ad abbassare anche i vetri posteriori. Loro sembravano indifferenti al caldo e al turbinio vorticoso del vento dentro l’abitacolo e non fecero problema alcuno. Con un sospiro di sollievo, spostò il busto in avanti verso il volante con la speranza di asciugarsi la camicia dietro la schiena. L’esito fu immediato, si riposizionò e imboccò, a velocità sostenuta, la preferenziale di via Tiburtina, lasciando il caos del traffico sulla destra, diretto al cimitero del Verano. Non c’era nessun autobus davanti e sulla strada diritta vedeva la serie di semafori diventare verdi uno alla volta. Si mise a correre.

Un sasso. Il rumore di un sassolino che urtava il montante del finestrino di fianco a lui. Questo sentì. Si girò di scatto e vide che non era un sassolino. Era un calabrone. Trasalì. Questo era grosso, arancione e nero e si avvicinava lentamente, per la botta, verso di lui. Una frazione di secondo e la sua mano destra lasciò il volante per scacciarlo con il dorso. Non lo prese, lo perse di vista, lo cercò e la macchina piegò un po’ a destra e un po’ a sinistra. Lo guardò passargli davanti e le zampe accarezzargli il pollice sinistro. Allontanò la mano e d’istinto schiacciò il pedale del freno. Il calabrone rimase sospeso tra lui e il volante, finché ripartì stancamente, sfiorandogli la spalla sinistra e uscendo dal finestrino.

“È finita, è andato via. E non mi ha neanche punto!” Disse con un grande sospiro. Non poteva accorgersi che il grosso insetto si era solamente appoggiato fuori lo sportello. La macchina camminava per inerzia, ma era riuscito a governarla. Si scusò con la coppia che, nonostante tutto, non aveva dato tanto peso allo sbandare dell’auto, né all’insetto. Schiacciò il pedale acceleratore e riprese a gran velocità. La signora era seduta dietro di lui, con la testa appoggiata sulla spalla del compagno. Non vide il calabrone rientrare in macchina, forse per colpa del vento. Questi si nascose come una bestia ferita, in un punto non visibile del lunotto posteriore, per riprendersi, con molta probabilità, dalla botta presa al finestrino. Arrivarono a destinazione, i due scesero e lui ripartì, questa volta con i vetri chiusi.

Era l’ora di pranzo e aveva una gran fame. Si fermò a un Mc Donald sulla Tiburtina, ordinò una doppia porzione di patatine nel menù e un bicchiere di aranciata con ghiaccio. Prese la cannuccia, che inserì nel coperchio del bicchiere, piegò il beccuccio snodato e diede una buona sorsata della bevanda fresca. Poi si sbrigò a mangiare il panino e le patatine. Uscì di corsa per non perdere altro tempo, portandosi il bicchiere con l’aranciata rimasta e ancora fresca. Entrò in macchina e appoggiò il bicchiere nell’apposito vano appena dietro la piccola leva del cambio automatico, sicuro che, con il coperchio e la cannuccia inserita, il liquido non sarebbe mai uscito. Premette lo start e partì per prendere il Grande Raccordo Anulare. Aveva lasciato l’auto al sole, e anche se per poco tempo, era ancora calda. Accese l’aria condizionata per non aprire i vetri, ancora un po’ scosso dall’accaduto. Gli tornava in mente tutto e sentiva ancora le zampette del calabrone sul pollice. Bevve un’altra sorsata di aranciata ancora fresca fino a quando non entrò l’aria nella cannuccia. Ripose il bicchiere nel vano per risalire lo svincolo del raccordo anulare e si lanciò a gran velocità, direzione via Casilina.

 

Aveva appena superato il cavalcavia della A24 quando lo sentì. Non era il ronzio di un’ape, di una mosca o di un altro grande insetto. No, questo era cupo, basso e penetrante come il rumore lontano di una moto di grossa cilindrata.

“Oddio, è rientrato”, disse con le sopracciglia inarcate, “Bastardo maledetto!”

Aveva superato il limite di velocità sulla corsia di sorpasso, in un raccordo stranamente libero, quando lo vide dallo specchietto retrovisore sondare il vetro del lunotto per trovare una via d’uscita.

“Ma di che cazzo sono fatte ’ste bestie? C’hanno la corazza d’acciaio? Andavo a novanta all’ora quando ha sbattuto contro il montante, pure n’aquila se sarebbe spezzata in due!”, urlò. Puntò alla corsia d’emergenza per fermarsi e aprire il portellone del vano portabagagli con l’intenzione di farlo uscire, ma già quel piccolo cambiamento di direzione sembrò indispettire l’insetto che si trovò, senza volerlo, dalla parte opposta del lunotto. Il ronzio divenne più forte, insopportabile. Appena entrò nella corsia, spinse il pedale del freno con veemenza, la velocità era alta. Il calabrone si ritrovò catapultato in avanti. Gli passò vicino all’orecchio destro, così vicino da sentirsi toccato dalle ali. Fece uno scatto con la testa per allontanarsi e con la mano tentò di scacciare l’animale. Riuscì a toccarlo solo con un dito, ma bastò a farlo infuriare. Questi prese a girargli intorno mentre lui agitava tutte e due le mani: lo aveva davanti agli occhi, sopra la testa, dietro la testa e l’auto non era ancora ferma. Finalmente, con un colpo del dorso, lo cacciò dietro, ma si accorse troppo tardi di aver lasciato il volante. Non riuscì a evitare il guardrail. Tutta la fiancata stridette contro il metallo. La convergenza, la macchina tirava a destra. Prese il volante e scartò a sinistra, ma il danno era già fatto. L’auto aveva il drive inserito e si muoveva ancora, lentamente. Stava per premere il pulsante di stop, ma la bestia lo attaccò nuovamente.

“Maledizione, i finestrini!” I vetri erano ancora alzati. Cercò la pulsantiera sullo sportello mentre si scansava dagli attacchi del calabrone. Il ronzio era divenuto impetuoso e l’insetto volava a incredibile velocità, poi si fermava sospeso in aria, si abbassava e si alzava, poi puntò la mano che si muoveva. Lui indugiò un attimo per guardare i tasti della pulsantiera, finalmente li trovò e i vetri si abbassarono, ma la sua mano destra rallentò i movimenti e l’insetto lo infilzò sul dorso con un secco movimento. Un chiodo rovente, questo era. Lui si prese la mano con l’altra, alzò il mento e urlò dal dolore. La bestia ne approfittò per attaccarlo alla gola. Riuscì a pungerlo poco più sotto del gozzo e volò via dal finestrino aperto.

Il dolore lo irrigidiva e il piede era rimasto sul pedale del freno tenendo ferma la macchina, ma avrebbe dovuto spegnerla e chiamare aiuto. Non pensava esistesse un dolore così intenso. Guardò la mano ferita che si stava velocemente gonfiando e paralizzando.

“Oddio!”, pensò tra le lacrime. “Se si è gonfiata la mano…” Il cuore cominciò a battere forte, a ogni respiro corrispondeva una fitta alla fronte e una dietro la nuca. Prese il borsello che aveva sul sedile di fianco e tirò fuori il cellulare. La mano destra era completamente paralizzata, doveva usare la sinistra. Appoggiò lo smartphone sotto il pollice e accese lo schermo. Chiamò il 118: “Numero d’emergenza, dica”. Non fu capace di rispondere. La lingua non si muoveva, il suono non usciva e il respiro era sempre più affannoso. Si toccò la gola e il gonfiore era grande quanto il palmo della mano. Sentiva il respiro allontanarsi sempre più velocemente. Capì che era questione di tempo, anzi, di attimi. Premette il tasto stop della macchina, scese e cercò di fermare qualcuno che gli desse aiuto. Passarono le auto a tutta velocità e nessuna si fermò. Sentì l’aria entrare sempre meno nei polmoni: doveva correre in ospedale. Si girò per tornare in macchina, sembrava lontanissima. Crollò sul sedile mentre sentiva il battito del cuore fino alle tempie. Si rese conto che non stava quasi più respirando. Un sibilo d’aria entrava e uno usciva con spasmi e contorsioni.

Lasciò cadere le braccia e la mano ferita cadde sul bicchiere d’aranciata posto ancora nel vano. Rimpianse il sapore delle patatine e quella bella sorsata fresca e saporita, col gorgoglio della cannuccia che prendeva l’aria con il bicchiere vuoto. Il gonfiore era al limite e lui si stava spegnendo, lo sapeva, ma non voleva morire con l’immagine di un bicchiere d’aranciata con la cannuccia, voleva aprire gli occhi e guardare il cielo azzurro di Roma, non la cannuccia… “La cannuccia… cazzo, la cannuccia prende aria…” Allungò il braccio sinistro fino a prendere il bicchiere. Lo mise tra le gambe e tirò fuori la cannuccia. Doveva trovare il pertugio e poi avrebbe respirato. Allargò la bocca e fece entrare il piccolo tubo di plastica. Era stato tutto anestetizzato dal veleno del calabrone e non provava dolore. Si stava lacerando i tessuti, ma lui continuava fino a sentire l’aria entrare nei polmoni. Sapeva che non doveva ingoiare, altrimenti avrebbe sbagliato strada, quindi continuò a far entrare e uscire il tubicino tra un sibilo di respiro e l’altro. Passarono due minuti, forse tre, quando il sibilo divenne un fischio. Un forte fischio. La cannuccia aveva superato il blocco dovuto al gonfiore, prendendo la giusta via. Attese un minuto, regolò la respirazione e con la mano integra tolse il freno dell’auto. Guardò la mano ferita: il gonfiore aveva raggiunto il gomito, avrebbe fatto la stessa cosa con la gola. Doveva arrivare al pronto soccorso. Non aveva problemi a guidare con una mano sola e la macchina non aveva il cambio. Accese le doppie frecce e partì, lentamente, con la testa che stava per esplodere e il fischio che usciva dalla bocca grazie a una cannuccia infilata chissà come. L’ospedale era a circa sei chilometri, lontano, ma c’avrebbe provato. Entrò con l’auto al pronto soccorso travolgendo la sbarra all’ingresso e parc

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