Una storia che inizia come nel più classico dei romanzi di formazione e finisce con una forma di sghemba speranza. Camilo e la sua famiglia disfunzionale vivono nella calda estate basiliana del 1976, nel periodo peggiore della dittatura, con torture e morti inflitte ai prigionieri politici. Ma l’orrore che attraversa il suo paese è un mondo sconosciuto per Camilo, preoccupato di sopravvivere all’inizio dell’adolescenza, con un corpo anchilosato, una gamba che si muove male se non con le stampelle e la pelle troppo chiara per quel clima, continuamente esposta a piccole ustioni, vesciche e scottature. Il desiderio sessuale è ancora un bozzolo sconosciuto che si nutre di vaghe immagini erotiche sulle riviste di gossip, immerso nel tempo sospeso e sfinente della stagione estiva trascorsa in piscina, a guardare la sorella che vive gli ultimi scampoli d’infanzia, incurante del suo corpo che si trasforma. Il mondo oscuro e magico dei riti afrobrasiliani permea l’intera narrazione, come un corpo a parte, inserito nella vita dei domestici di Camilo e dalla sua famiglia. Maria Aina, la sua tata veggente, lo introduce ai misteri della religione degli antichi, ed è l’unica che dimostri per lui un affetto sincero, visto che la madre è immersa nel suo mondo alienato fatto di abusi di alcool e fumo e il padre è un medico sempre assente. Quello che accade in quell’estate, e che fa esplodere il mondo e la confortevole solitudine di Camilo, è l’arrivo di Cosme o Cosmin, un ragazzino mulatto recuperato dal padre di Camilo in una favela. Apparentemente non c’è nessun legame di sangue con il ragazzino, ma nel corso della narrazione verrà alla luce un legame oscuro e colpevole.
La presenza di Cosme accende Camilo di speranza, si innamora di lui nel modo assoluto e devastante che hanno i primi amori, quelli che non lasciano scampo, e questo amore non si ferma nemmeno davanti alle occhiate di disapprovazione della gente abitante della periferia logora e annoiata; nemmeno davanti all’incredulità degli amici e dei compagni di scuola. Lo splendore di quel primo amore, interrotto per un evento tragico, farà da contraltare allo sfaldarsi della famiglia, all’isolamento paterno e materno, all’inquietudine e alla gelosia della sorella, e alla scomparsa di Maria Aina. Di più, quell’amore diventa furore e rimpianto, irrinunciabile nel ricordo, perché voltare pagina significa tradire la memoria tattile ed emotiva del loro stare insieme.
Troviamo Camilo alle prese con la solitudine cosmica degli scapoli di mezz’età, aggrappato ai piccoli riti dei contatti fugaci con i vicini di casa. Deciderà di adottare, nel modo spontaneo e privo di regole, tipico di certi posti del Brasile, un bambino orfano, cresciuto in una baracca di fortuna, e il legame con il piccolo Renato è il suo modo di espiare una colpa non sua, un modo per cercare conforto all’insensatezza e alla crudeltà di chi lo ha privato dell’amore e della speranza.
È una storia che risucchia il lettore in un mondo attraversato da luci accecanti e fulmini color verde elettrico, un mondo crudele e poetico, dove l’innocenza dei ragazzini diventa la corda destinata a imprigionarli e condannarli, a spazzare ogni forma di trepidante amore, come se gli amori felici fossero essi stessi una colpa, una responsabilità che la normalità torpida ed etero normata non potesse tollerare, meno che mai accettare.
In principio il nostro pianeta era caldo, giallognolo e odorava di birra marcia. Il terreno era sporco di fango bollente e appiccicoso.
Le periferie di Rio de Janeiro furono la prima cosa ad apparire nel mondo, ancora prima dei vulcani e dei capodogli, prima che il Portogallo ci invadesse, prima che Getulio Vargas facesse costruire le case popolari.
Ho amato Cosmin come tu hai amato il tuo primo amore, che si chiamava Bruno o Pablo, o Mariana, Erica, Mateus. L’ho amato come Lucas ha amato Sophia e Daniel ha amato Gabriela.
Come Andrè ha amato Luca, come Tayana ha amato Nanda, io amo Cosmin, il primo e l’unico.