Linda Barbarino è una narratrice di razza. Ed ecco un caso in cui questa vecchia parola non stona, secondo me, perché fa riferimento non al colore della pelle e nemmeno al luogo in cui qualcuno è nato, ma alla particolare capacità, o talento se preferite, che qualcuno possiede di raccontare storie con la giusta voce convincente così da raccogliere un pubblico attorno a sé. Insomma, secondo me, c’è una razza dei narratori e Barbarino ne fa parte.
Il suo secondo romanzo lo conferma. È in libreria dal 9 giugno e s’intitola La malarazza (Il Saggiatore 2023). Narra le vicende di un gruppo di ragazzi nella Sicilia del secondo dopoguerra, che vorrebbero combattere il mercato nero e lo sfruttamento però si ritrovano quasi involontariamente tra le file dei briganti. Come nel precedente del 2020, La Dragunera (che fu finalista al premio Calvino), Linda Barbarino, che è nata a Enna e insegna in un liceo classico della sua città, sa utilizzare l’ambientazione siciliana, la lingua e le passioni che attraversano le sue storie per raccontare i sentimenti universali dell’uomo di ogni tempo.
Uno dei pochi privilegi di chi fa il mio mestiere, per alcuni misterioso e forse per altri solo strano, di lavorare in una scuola di scrittura è senza dubbio quello di incontrare autori e autrici prima che diventino famosi, anzi in molti casi prima ancora che abbiano pure solo l’idea dell’argomento del loro primo manoscritto. Questo è accaduto anche con Linda Barbarino, che ho seguito mentre scriveva i suoi primi racconti e poi le sue pagine romanzesche con crescente interesse. Perciò è con vero piacere che l’intervisto oggi, quando i frutti del suo talento da acerbi son diventati maturi.
Io ti ho conosciuta quando eri una bravissima scrittrice in cerca di pubblicazione, ora sei già al secondo romanzo, È cambiata in qualcosa la tua vita?
La mia vita non è cambiata affatto e non voglio cambi. La scrittura mi ha dato solo una consapevolezza diversa di me stessa, come può darla la nascita di un figlio o la certezza di un affetto stabile.
Dalla Dragunera alla Malarazza sono passati pochi anni, dopo tutto, come hai fatto a ritrovarti pronta a una nuova storia così intensa?
La storia l’ho buttata giù immediatamente dopo la Dragunera, mi sentivo immersa nell’acqua di una sorgiva ormai scoperta, non volevo staccarmi dal flusso di scrittura che mi invadeva… negli stessi ambienti, la stessa lingua.
La storia si svolge in Sicilia, in un passato non troppo lontano ma che sembra molto diverso dal mondo di oggi. Eppure, trovi che abbia attinenza anche con quello che accade ai nostri giorni?
L’umanità è sempre uguale in ogni epoca; c’è chi lotta per realizzare il bene e chi invece si adopera per il profitto, per guadagnare soldi e potere.
Ti interessa da molto la figura dei briganti nel Sud?
Non era la storia dei briganti nello specifico a interessarmi. Il punto era tornare lì, svelare i mondi dietro le parole smozzicate dei miei genitori, delle mie zie, di coloro che hanno vissuto quell’epoca. Volevo proiettarmi il film che intuivo dietro i loro sguardi, nei ricordi, entrare anch’io in quel cinematografo, vedermela scorrere davanti la pellicola. Le innumerevoli storie sui briganti fanno parte di quel mondo.
Sempre, nelle tue pagine, si mescola, alla passione sentimentale e ideale, la prepotenza del potere, che si combatte forse dalla notte dei tempi. Nasce qui la tua ispirazione?
Dalla lettura de Il Vangelo secondo Gesù di Saramago mi ha sempre suggestionato l’ipotesi (certamente blasfema e paradossale) di un accordo tra Dio e il Diavolo, soci in affari per assicurare l’uno la sopravvivenza dell’altro. La lotta tra il bene e il male fa parte del tutto, noi ci siamo dentro, ce l’abbiamo dentro. Il male certamente è più corrosivo ma esiste anche il bene. Purtroppo la storia ci insegna che chi opera per il bene può trovarsi stretto nelle spire del potere a fare suo malgrado il “pupo”, sacrificare la propria vita inutilmente o rendersi inconsapevole strumento di attrazione per altri buoni che finiscono impastoiati nelle logiche del potere.
La Dragunera era un romanzo che narrava la storia di poche persone e aveva una protagonista sopra tutti, questa è una storia corale con molti personaggi coinvolti. È stata una scelta oppure è venuta così?
Mi sono imbattuta in una storia realmente accaduta nel dopoguerra: l’assalto alla corriera da parte di alcuni giovani che intendevano combattere il mercato nero. La molla me l’ha fatta scattare il genio di Pirandello: il gioco tra apparenza e realtà. Credono di essere comunisti ma vengono scambiati per briganti e si ritrovano al servizio di uno che il brigante lo fa per davvero ed è comunista solo per gioco, all’acqua di rose: si tratta del bandito Giuseppe Dottori di Centuripe.
Il resto è venuto da sé: i commenti in paese, le conseguenze, le relazioni coi protagonisti che hanno dato vita ad altri personaggi.
Come lavori con il dialetto che affiora sempre nella tua scrittura e la sostiene anche quando le pagine sono più “italiane”, pensi in italiano e poi lo “traduci” oppure la tua lingua nasce già in siciliano nella tua testa?
Il momento esatto in cui ho cominciato a “far scorrere” la Dragunera è stato quando ho scoperto la voce. I personaggi lì si sono materializzati, hanno parlato, provato sentimenti e formulato pensieri, intenzioni. Il buon attore non tralascia neanche una sfumatura. Anche io sulla pagina ho cercato di interpretarli. Ho pensato come loro, ho parlato come loro. Il libro nasce in siciliano. Solo dopo e con fatica e nella fase della limatura ho cominciato a rinunciare a certe parole e a sostituirle, ovviamente per risultare comprensibile a tutti. Il mio editor ha detto le parole magiche a confortarmi: “C’è già la sintassi”, la costruzione della frase, e pure la parola italiana che non è l’italiano che avrei scelto in altri contesti. E comunque ne La Malarazza ho voluto rendere anche il parlato di una classe superiore (i nobili del circolo) che usano il siciliano con più moderazione e talvolta solo al fine di colorire il parlato.
Una cosa che mi ha sempre colpito nelle tue storie è la presenza di un mondo che vive a contatto con la natura con gli animali, pure gli uomini sembrano quasi bestie: “Parole di lacrime e sputazza dentro al raglio di animale. Sangue dentro agli occhi e la forza di un bue che ha visto il coltello, un maiale che lo portano al macello”, così descrivi un personaggio…
L’essere animale, bestia, non ha una connotazione esclusivamente negativa. Di fronte alle tragedie, a sentimenti forti che ci pervadono, spesso, se ci lasciamo andare, noi siamo animali, apparteniamo comunque al genere animale. Le bestie non studiano i gesti, non sono ipocriti. Io parlo di persone semplici che nel ciclo verghiano starebbero al primo stadio, quello in cui i sentimenti si esprimono senza le sovrastrutture e le finzioni di chi appartiene a una classe sociale superiore.
In questa storia sembri più vicina a certi esempi siciliani della grande letteratura, ho ragione? Ti sei confrontata con loro?
Quando scrivo, scrivo e basta. Entro nel “cinematografo” di cui parlavo prima, lo vedo, lo interpreto, leggo, la scrittura è una lettura più faticosa, ma è lettura. È indubbio che le suggestioni di certa letteratura e di tutti i libri che ho dentro emergano mentre scrivo, ma non lo faccio intenzionalmente.
Tu sei un’insegnante, i tuoi studenti leggono i tuoi libri, e cosa ne pensano?
Amo l’effetto sorpresa, l’apprezzamento sincero di studenti ed ex studenti che mi contattano per dirmi che hanno letto il libro. Non ne parlo molto, voglio siano loro e che non pensino, e soprattutto non lo pensi io stessa, che è una manovra per cercare adulazione e facili consensi.