La cameriera aveva lasciato l’abito per la festa sul letto a baldacchino che troneggiava nella stanza.
Edith lo guardò: era bianco, di un tessuto pesante, con inserti di pizzo prezioso sulla scollatura e sulle maniche, lunghe e rigide.
Avrebbe voluto indossare un abito scuro e non sembrare una jeune fille in virginale attesa di un matrimonio vantaggioso che l’avrebbe messa al riparo dalle durezze della vita.
Sua madre, come al solito, era stata irremovibile: abito bianco e nessun gioiello, al massimo un mazzolino di mughetti alla cintura, come si conviene a una ragazza ancora nubile.
Edith si avvicinò alla finestra e uscì sul grande balcone che dava sul giardino: al di là della chioma verde degli alberi secolari la città di New York chiamava a raccolta rampolli facoltosi e ragazze da marito per l’ennesima festa di “morti in vita”, come li chiamava Edith.
Doveva andarsene da lì, e al più presto, in un luogo che non fosse New York, dove si sentiva una fallita perché tutti pensavano che fosse troppo intelligente per essere alla moda. Boston le era sembrata una via d’uscita ma il senso di fallimento l’aveva raggiunta anche lì, dove pensavano che fosse troppo alla moda per essere intelligente.
Un leggero bussare alla porta annunciò la cameriera, venuta ad aiutarla per vestirsi.
Se solo smettessimo di cercare di essere felici, ci potremmo divertire parecchio, pensò Edith, mentre atteggiava il volto in un sorriso di circostanza, perfetto pendant al suo abito da sera.
Bibliografia:
Edith Wharton, L’età dell’innocenza, Feltrinelli;
Edith Wharton, Estate, Feltrinelli.