Una delle notizie che ha addolorato di più il ristretto mondo degli scrittori e dei lettori è stata la morte sabato scorso di Ada D’Adamo, che con il romanzo Come d’aria, pubblicato da Elliot, era appena stata selezionata tra i 12 libri candidati al Premio Strega. Ha colpito tanti e io sono stato raggiunto dalla notizia proprio mentre stavo parlando di malattia e scrittura. Infatti quando l’informazione si è diffusa, noi di Genius stavamo partecipando alla premiazione di un concorso letterario che seguiamo da molti anni: Un ponte sul fiume Guai, organizzato da Moby-Dick, una Onlus di volontari psicologi guidati da Maurizio Cianfarini, che si occupano di rimanere accanto ai malati di cancro e ai loro congiunti durante tutto il percorso, mentre si svolgono le cure e anche dopo. I racconti che hanno partecipato al premio, arrivati da molte parti d’Italia, da Firenze, da Chiavari, da Verano Brianza, da Rimini, da Cittaducale, da Sellia Marina, oltre che da Roma mostravano proprio il tentativo di trasformare in parole la necessità di affrontare il male e di ripartire, come se davvero un ponte si stendesse tra due sponde, quella dove c’è la malattia e quella dove si arriva, in un modo e nell’altro, alla fine del cammino. Morti o guariti.
Così non poteva apparirmi più significativa la coincidenza tra la premiazione che si è svolta a Roma nella Sala della Protomoteca in Campidoglio dell’VIII edizione (in sedici anni) di questo premio e la morte di Ada D’Adamo, perché il suo romanzo, potente e doloroso, così assolutamente autobiografico, racconta del tumore che l’ha colpita e della sua relazione con una figlia disabile. Del suo libro mi aveva colpito alla prima lettura una citazione che secondo me rappresenta bene il senso di molte delle scritture di chi si accinge a narrare un’esperienza dolorosa, ed è una frase che sottoscrivo completamente: “È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio”. Una citazione di Rita Charon, un medico internista e studiosa di letteratura, che ha creato e dirige il Programma di medicina narrativa alla Columbia University.
Così mentre non riuscivo a sottrarmi alle emozioni dei racconti che venivano letti da un gruppo di lettrici (Camilla Zapponi, Paola Brunetti, Rossella Ferranti, Giovanna Mormile, Stefania Napoleoni) con la musica dell’organetto di Roberta Bartoletti, pensavo a tutti quegli scrittori che hanno provato a narrare la loro malattia, o la disabilità propria oppure di un figlio. Mi sono venuti in mente Clara Sereni con il suo racconto Marcia trionfale, Cesarina Vighy con L’ultima estate, Giuseppe Pontiggia con Nati due volte, Pia Pera e la sua narrazione autobiografica Al giardino ancora non l’ho detto, e tutti gli innumerevoli altri che non hanno ceduto alla trappola del silenzio che viene imposta dal dolore. Ne sono sfuggiti.
In fondo è anche questo il senso della nostra fatica di tutor di scrittura creativa, pure quando ci rendiamo conto che non verranno fuori grandi capolavori da alcuni di quelli che partecipano ai corsi, il nostro è comunque sempre un modo per indicare, a chi vuole, la possibilità di esprimere la propria realtà esistenziale, e quando c’è, anche il proprio dolore.
A documentare il concorso Un Ponte sul fiume Guai c’è un libro, anzi otto libri che documentano lo sviluppo di una sorta di narrazione collettiva dal 2007, e che in questo ottavo volume comprende i racconti vincitori, di Ersilia Torello, Cristina Griffo, Rosanna Franceschina, Eleonora Colombo, Anna Claudia Amadori, Francesca Pace, Lilia Miceli, Caterina Tagliani, che come scrive nella prefazione l’ideatrice del premio Raffaella Restuccia: “Hanno scritto per condividere, per sostenere, per testimoniare, per riaffermare il diritto all’ascolto e la motivazione ad aiutare gli altri. Sono racconti scritti con coraggio, autentici, intimi, che chiedono e offrono vicinanza”.
Tra i premi in palio c’era anche un nostro corso di scrittura, un piccolo incentivo per continuare a raccontare a raccontarsi.