Diventare adulti in un mondo che ti ha fatto una serie di promesse e poi non le ha mantenute può renderti talmente frustrato e rabbioso al punto da rendere la violenza l’unico sfogo che ti sembra possibile.
È questo il percorso di ribellione, che inizia in maniera sottile, innescato dalla crisi economica nella ex DDR, quando il muro, per i giovani protagonisti del romanzo, non è altro che un racconto dei genitori e dei nonni, e che diventa, per loro e per i loro coetanei, un passato che pesa sulle loro anime, e offusca le loro speranze. Tobias, detto Tobi, e Philipp, sono i figli di una tiepida coppia borghese, lui elettricista, lei infermiera, che vivono la loro infanzia con tutti i traumi tipici dei bambini: incomprensioni scolastiche, desiderio di primeggiare, accettazione del fatto che non sono particolarmente portati per le materie speculative. Tutto il mondo che li circonda è fatto di cose non dette, come la collaborazione con la Stasi di un amico del padre, che fa calare sulla piccola comunità un senso quasi palpabile di disagio. Tobi e Philipp sono due bambini inquieti ma abituati ad accontentarsi, il modo distratto di ascoltare di chi vagheggia la ricchezza e le possibilità dell’ovest. Durante l’adolescenza dei ragazzi la famiglia implode, la ricerca e la costruzione di una casa più grande ha prosciugato ogni forma residua d’amore opaco che esisteva tra i genitori, ognuno chiuso dietro il suo personale rimpianto: il padre per la sua prima fidanzata, probabilmente lasciata perché non poteva avere figli, e la madre per non aver tentato di diventare un medico, scegliendo un lavoro più compatibile con le esigenze familiari. La sensazione che hanno tutti è di essere sempre lasciati in ultima fila, le mani tese nel gesto di una supplica dimenticata. Si sentono relegati in panchina, come durante il regime, figli dimenticati di una Germania che altrove rivendica il suo ruolo di superpotenza. Il senso di non essere adatti a partecipare alla ripresa economica rende i giovani protagonisti del romanzo furiosi, e la presenza di immigrati arabi trova, nella violenza che sentono, un naturale sbocco. Perché, se a nessuno importa abbastanza di te, allora devi costruirti il tuo mondo distruggendo la porzione di mondo che non ti ha protetto e ti ha invece mentito, mettendoti in disparte. Questo è il loro sentire, e la narrazione, intima, scorre veloce come una serie di diapositive, senza giudizio, solo accorta a che la rabbia compressa arrivi intatta al lettore.
È un romanzo in cui si fondono ferocia e dolore, gli occhi aperti per forza su un cielo talmente azzurro da accecare, la bottiglia di birra che oscilla tra le mani prima di cadere a terra con fragore, riempita di liquido infiammabile.
Tobias rise del pagliaccio dei Verdi che veniva intervistato in qualche stanza. Uno sbruffone con la laurea. La parete tappezzata di libri. La vita umana di qua, salvare gente di là. Fanculo, voleva urlargli. La piazza del mercato era piena. Nemmeno un politico nel raggio di chilometri che affrontasse le masse. Se ne stavano rintanati in casa, comodi e al calduccio.
A volte – riprese Menzel – avrei voglia di gridare in faccia alle persone e di scuoterle, perché mi dà sui nervi quando nessuno dice o fa niente. Me lo sogno anche la notte. A volte sogno di gridare in faccia alle persone. Punto. Succede solo quello nel sogno.
Ho presente – disse Tobias – Anche a me dà sui nervi questa merda totale. Sempre la stessa storia, e tutto va a rotoli. Sempre così, come se non fosse mai andata diversamente.
Come se qualcuno ti stritolasse per tutto il tempo, ma tu non vuoi. Vorresti liberarti ma non ci riesci.