Una fitta nebbia annuncia un insolito vento rosso, che somiglia a una specie di piaga biblica perché, quando avvolge e colpisce gli esseri umani, questi iniziano a squamarsi, la pelle si scortica fino a rivelare tra le pieghe la carne viva. Ospedali intasati, taxi abusivi, scarsità di alimenti, e soprattutto, le specie animali che scompaiono o mutano, come i pesci, che nuotano placidi in un fiume fangoso e inquinato, un liquame colmo di rifiuti, o gli uccelli, che all’improvviso emigrano verso un altro paese, lasciando un silenzio che grava sulla piccola città di mare uruguaiana in cui vive la protagonista. Di lei non sapremo mai il nome, sapremo che ricorda il tempo della sua infanzia, divisa tra una madre distratta e una donna, Delfa, che si prendeva cura di lei e che la portava in giro attaccata alla sua mano, anche a trovare il marito, custode di una fabbrica di conserve alimentari, la famosa melma rosa, creata come un omogeneizzato di scarti di carni animali, unico prodotto commestibile, nella carestia che si è abbattuta sul mondo abitato dell’io narrante. Dopo aver divorziato da Max, amore di gioventù, e che ora è ricoverato al Policlinico tra i malati cronici per essersi esposto, forse volontariamente, chi lo sa, alla nebbia urticante, e aver lasciato il lavoro, divide il suo tempo tra l’occuparsi di Mauro, un bambino con la sindrome di Praeder-Willi, che rende chi ne è affetto preda di una fame insaziabile al punto che mangerebbe anche l’intonaco o i rifiuti, e brevi incursioni nei centri commerciali abbandonati alla ricerca di scatolette e qualunque cosa sia commestibile. In queste passeggiate, la protagonista riflette sulla deriva che ha preso la sua vita, scollata da ogni certezza, e il senso ineliminabile di fallimento che grava su di lei, come la cappa nebbiosa e umida che tiene in ostaggio la popolazione. Coprifuoco, mercati alimentari abusivi, perdita del senso dell’orientamento scandiscono il suo percorso emotivo, in una rapida manciata di flashback, che ci dicono di lei bambina, abituata a non essere amata e toccata se non da Delfa, e ci raccontano di una giovane donna abituata ad accettare, in mancanza di emozioni profonde, quelle degli altri, e l’assorbimento di quelle emozioni la consuma fino a lasciarla esausta, svuotata. In questo mondo disumanizzato che perde progressivamente ogni forma di bellezza e di solidarietà, l’unico contatto è con il bambino, difficile, obeso, con il quale la comunicazione si basa sul soddisfacimento che ha lui di mangiare praticamente sempre, come se avesse un secondo corpo deciso a distruggere il primo. E i ricordi, che sono l’unica testimonianza che abbiamo, quando l’impensabile accade e ci travolge.
Nei giorni di nebbia il porto diventava una palude. Un’ombra attraversava la piazza, si insinuava tra gli alberi e lasciava le lunghe impronte delle sue dita su ogni cosa che toccava. Sotto la superficie intatta, una muffa silenziosa solcava il legno; la ruggine perforava il metallo. Tutto marciva, anche noi. Se non ero con Mauro nei giorni di nebbia uscivo a fare un giro da sola per il quartiere. Mi lasciavo guidare dall’insegna luminosa dell’Hotel.
L’inizio non è mai l’inizio. Ciò che confondiamo con l’inizio è solo il momento in cui ci accorgiamo che qualcosa è cambiato. Un giorno comparvero i pesci. Quello fu un inizio. Una mattina le spiagge erano coperte di pesci argentati, sembravano un tappeto di frammenti di vetro o tappi di bottiglia. Brillavano mandando bagliori che ferivano gli occhi.