“Manuale di caccia e pesca per ragazze” di Melissa Bank (Accento)

Jane è una ragazza, ebrea assimilata, di New York, perché New York è il posto al quale appartieni, se non appartieni a nessun altro posto.

Antesignana di Elizabeth Strout (Olive Kitteridge) e di Jennifer Egan (Il tempo è un bastardo), Melissa Bank propone un romanzo di racconti, dove l’unicità del singolo episodio narrato si innesta nella complessità di una vita dispiegata in maniera garbata e irriverente anche quando parla di lutti, perdite e malattie, dalla prima adolescenza alla maturità. Jane è una ragazza, ebrea assimilata, di New York, perché New York è il posto al quale appartieni, se non appartieni a nessun altro posto, un luogo affollato e soverchiante, in cui sono tutti apparentemente gentili, quando non sono troppo competitivi o distratti o di fretta. La New York narrata è quella prima della ferita delle Torri Gemelle, fatta di appuntamenti volanti e difficoltà endemiche a mostrare i sentimenti. Jane si innamora e si disamora di un uomo molto più grande di lei, un editor famoso che le fa da mentore nel suo lavoro in una casa editrice concorrente a quella in cui lei lavora, alcolista e troppo paterno e affascinate per lasciarlo. Vive la condiscendenza manipolativa del suo capo, una donna in carriera, comprensiva quanto basta con i suoi ritardi nella valutazione dei manoscritti, fa amicizia con i vicini di casa della prozia scrittrice, e sente che essere newyorkesi è una condizione di precarietà dell’animo, oltre che un luogo di permanenza. New York è il regno dell’impermanente, in cui ogni lavoro è precario, in attesa di scoprire la vera vocazione artistica, ogni cameriere o cameriera dallo sguardo liquido nasconde l’ambizione, a tratti esibita, di voler diventare un cantante o un attore di teatro o uno scrittore. Jane sente di non poter competere con tutta questa bramosia, soprattutto perché proviene da una famiglia benestante, decisa a godersi ogni possibilità offerta dai soldi, senza ostentazione, con la placidità di chi lavora e crede che comportarsi bene sia sufficiente a tenere fuori dalla porta ogni spettro. È come se la paura di mostrare la dura realtà avesse congelato i genitori di Jane al punto che il padre, medico, le rivela la sua malattia solo negli ultimi momenti, quasi come se tenendola nascosta ai figli potesse illudersi che il cancro non esistesse. La confusione, il turbamento e l’ansia di Jane viene comunicata al lettore con una sorta di leggiadria, senza nessuna superficialità, quasi che la disperazione non avesse bisogno di parole altisonanti ma risultando evidente attraverso la descrizione di oggetti polverosi in una casa priva di presenze, un frigorifero vuoto con un’unica arancia dove il colore originario del frutto è modificato da piccole macchie di muffa bianca.

È un libro che mi ha fatto ridere e piangere e sentirmi reale, viva, desiderosa di comunicare con Jane mentre si spazzola i capelli e cerca, dando retta a uno strano manuale in voga negli anni ’90, di rendersi sfuggente e misteriosa per un uomo, piuttosto che spiritosa, simpatica e disponibile. Ogni ragazza cresciuta in quegli anni ha avuto a disposizione lacrimevoli memoriali di autoaiuto di donne modeste che sapevano cosa fare per tenersi un uomo, anche se, come me, probabilmente non li ha mai letti. E anche Jane, forse, non ha bisogno di uomini che la considerino disposta a sottomettersi ma che le chiedano di ridere, come antidoto alla malattia, alla solitudine, le mani intrecciate sul guinzaglio di una cagnolina di nome Jezabel.

 

Senti che non ti può sentire, vedi che non ti può vedere. Tu non sei là, e non sei neanche morta, ancora. Ti vedi attraverso i suoi occhi: sei la Donna Generica, la figurina stilizzata sulla porta delle toilette.

Quando ti dice “ti amo tesoro”, ti accorgi che non ti chiama mai per nome.

Ti sottoponi alla radioterapia.

Gli dirai addio per tutte le giuste ragioni. Sei tu che devi rimanere aggrappata a questa terra. Devi serrare la presa, devi lasciarlo andare via.

Non lo vedrai più. A volte temi che ti amasse più di quanto chiunque avesse mai fatto o avrebbe potuto fare, anche se questo non aveva nulla a che vedere con te. Ancora oggi lui è ogni blazer blu che entra in un taxi, ogni figura che corre lungo il fiume, ogni motocicletta che ti sfreccia davanti.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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