SINOSSI: L’undicenne Khaled fugge per dimenticare la notte in cui ha affondato la lampara del padre ed è diventato zoppo.
Quando il capo gli diede una busta, un rastrello, una torcia e gli disse di setacciare a fondo la spiaggia, Khaled d’istinto, un riflesso condizionato, tirò a sé la gamba, con tutte e due le mani, per la coscia, e fece mezzo passo indietro. Con quella gamba più corta di qualche centimetro, solo un pazzo avrebbe potuto chiedergli di farsi ogni notte quasi un chilometro a piedi.
“Quello che trovi lo prendi e lo infili nella busta. Se vai più lento e ci metti più tempo degli altri, per me, è pure meglio. Basta che alla fine della settimana mi porti qualcosa, altrimenti prendi e ti levi di torno”, disse il capo, mentre gli metteva le chiavi della rimessa delle barche in mano.
Khaled si aggrappò al rastrello, che era quasi più alto di lui, un’altra cosa, l’ennesima, da trascinare. Si girò e guardò quella spiaggia che era una fettuccia, una forra, stretta tra montagne livide di lava e case che non la finivano di venire giù e risorgere a furia di mazzette e pensò che al momento giusto sarebbe scappato anche da lì. Sapeva che si può scappare in mille modi: l’insetto stecco lo fa restando immobile e fingendo di essere uno dei tanti rovi di more, la mosca fugge tornando sempre là, nello stesso, identico punto, la farfalla dalla foglia morta fingendo di essere ciò che resta dell’estate.
Mentre si avviava alla rimessa, il rastrello gli sfuggì di mano più volte. Già immaginava tutte quelle barche accatastate, le reti dismesse. Gli ricordavano il padre. Entrò a occhi bassi e si rintanò in un angolo. Aspettò che le voci dei bagnanti scemassero, quello era il segnale, poi uscì. Alla luce della luna la spiaggia era tutto uno scintillio, così nera di lava, e soltanto allora notò gli altri ragazzi, chini, a frugare tra la sabbia. Erano tanti, da perdere il conto. Si bloccarono, quasi all’unisono, e si girarono a guardarlo. Di loro vedeva solo le pupille bianchissime al riverbero delle torce. Gli tornò in mente la lampara del padre, la luce che in quella notte di due anni prima non aveva restituito che mostri, li aveva evocati dal mare, e maledì quella gamba che lo teneva fermo, che gli impediva di prendere e correre via.
Accese la torcia, gli cadde quasi di mano, tanto era duro accenderla, così arrugginita.
“Se vai più lento e ci metti più tempo degli altri, per me, è pure meglio. Basta che alla fine della settimana mi porti qualcosa”, gli aveva detto il capo, ma più Khaled cercava, più trovava niente: quelle palle fatte di chissà cosa che gli scarabei trasportano senza sosta, gusci di conchiglia, pezzetti di vetro. I ragazzi dovevano già aver fatto razzia di tutto. Passava e ripassava nei solchi lasciati sulla sabbia, gli facevano male le mani a furia di trascinare il rastrello. Alzò lo sguardo e gli sembrò di essere rimasto così indietro, gli altri erano lucciole in una notte d’estate, con quelle torce che si accendevano e spegnevano a intermittenza, lontano.
La spiaggia era così lunga che ci avrebbe messo settimane a percorrerla tutta. Doveva pure calcolare quanto ci sarebbe voluto a tornare indietro, allo stabilimento, dal capo. Non aveva molto tempo. Le ultime lampare stavano rientrando e non aveva percorso neanche la metà di quella forra. Doveva inventarsi altro o prima o poi l’avrebbero mandato via. Doveva cercare più a fondo, nei solchi lasciati dagli altri, magari lì era finito qualcosa. Ormai gli occhi si erano abituati al buio, poteva farcela anche senza quella torcia e quel rastrello. Erano una zavorra, un’altra, di cui voleva solo fare a meno. E poi al buio si sentiva al sicuro. Non era più Khaled lo zoppo, lo zoppo non esisteva più, non faceva più paura, ridere, nessuno lo scansava o lo prendeva in giro più. Al buio tornava quello che era stato una volta, prima dell’incidente. Al buio era come chiunque altro.
Si sedette. Ci mise un po’ a piegare quella gamba. Era sempre così, resisteva, era un cane che si divincola, strattona, si ferisce a sangue legato alla catena e cominciò a cercare. Più scavava, più la sabbia era una poltiglia, tant’era imbevuta di acqua. Non dava sollievo come di giorno. I polpastrelli erano congelati. Doveva fare in fretta. Aveva sabbia dappertutto, la sentiva sulle labbra, in bocca, tra i denti. Scavava, scavava, gli sembrava di strapparla via quella spiaggia, a manciate, a morsi. Si sarebbe fermato solo se l’avessero preso di peso e trascinato a forza.
Scavava forte ma niente, non bastava. Bisognava andare più a fondo. Così, con tutta l’incoscienza e la disperazione dei suoi undici anni compiuti appena, afferrò la gamba e la costrinse a piegarsi e a mettersi carponi. Fece qualche passo, in ginocchio, e fu allora che sentì quella fitta, una scarica elettrica, dalla punta dei piedi alle sopracciglia. Qualcosa di duro e appuntito che gli mozzò il respiro. Pensava all’ennesimo pezzo di vetro che il mare non aveva avuto ancora il tempo di levigare a suo piacimento e voleva solo farlo a pezzi. Lo prese e soltanto in quel momento si rese conto che era altro, una fede, piccola, una di quelle delle prime comunioni, con un brillantino al centro che scintillava come quella spiaggia. I rastrelli dovevano averla spinta giù, in basso, per questo nessuno l’aveva ancora trovata. Avrebbe voluto sciacquarla, pulirla a mare, moriva dalla voglia di vederla meglio, ma la paura che qualcuno lo scoprisse e gliela portasse via era più forte. Anche metterla nella busta era rischioso. La infilò in tasca in fretta, fece forza sulle braccia, sul piede buono, e si rimise in piedi. Per tutto il tragitto continuò a girarsi e rigirarsi indietro. Cominciava a fare giorno, l’insegna dello stabilimento si avvicinava sempre più. La gamba gli faceva male, così gonfia, ma Khaled riusciva solo a pensare al capo e alla faccia che avrebbe fatto davanti a quell’anello.