Una ferita inflitta a un popolo si riverbera sulle vite di chiunque a quel popolo appartenga. Così l’esilio, il tradimento, la violenza di proibire i balli, di parlarne la lingua, rende esuli nella loro stessa patria i nativi americani, espropriati di ogni diritto e condannati, senza alcuna colpa, a vivere dentro recinti, le riserve ghettizzanti che non offrono alcuna possibilità di avere una vita disancorata dai sussidi statali. Vincitore del Pulitzer nel 1969, torna ora in Italia con la nuova e intensa traduzione di Sara Reggiani, e ci racconta, di nuovo, cosa significa per un ragazzo navajo perdere il contatto con le tradizioni e con le credenze degli antenati.
Abel torna dalla Seconda guerra mondiale e si trova circondato da un mondo indifferente, dove gli unici legami che riesce a costruire sono fallibili e incerti. Rapito dalle luci di Las Vegas e dagli inganni scintillanti che la città tentacolare e spietata gli offre, inizia a perdere il senso di connessione con la storia della famiglia e la sua propria interiore, fino a quando rifletterà su quello che significa, e che ha sempre significato, per i nativi il rapporto simbiotico con il deserto, il cielo e la terra e l’uomo rosso dai lunghi capelli che calpesta il suolo, con rispetto, quando i bianchi hanno depredato e cancellato e distrutto il nutrimento fisico ed emotivo dei nativi, chiudendoli nelle gabbie chiamate Riserve.
Casa fatta di alba è un canto navajo di guarigione, di chi si trova stretto da malesseri del corpo e dell’anima e invoca il Grande spirito per riavere pace e serenità dentro e fuori.
È una storia di sconfitti, di assassini condannati dalla giustizia ma assolti dalla coscienza, di persone dedite all’alcool in ambienti ostili solo perché sono nativi, e l’occhio malevolo dei bianchi sembra spingerli a chiamarsi fuori dal lavoro e condannarli a una vita fatta di elemosina prima ancora di iniziarla. In questa civiltà ipocrita e fondamentalmente razzista l’unica possibilità è fermarsi a cercare il nostro intimo legame con le creature non umane che, senza sopprimere la loro natura, ci ricordano che siamo liberi, e solo nella libertà interiore siamo al sicuro.
Si legge come una poesia, o un insieme di poesie, una prosa lirica che diventa dolente o consolatoria, nella sua ricerca di verità, nel tentativo, attraverso la parola scritta, di offrire quella cosa verde con le piume, per citare la grandissima Emily Dickinson, che è la Speranza, una cosa magica che ci dà la possibilità di non esaurire l’esistenza nel buio, ma di aspettare la luce che filtra dai rami, per quanto sia difficile per lei farsi strada in un intrico di alberi e cielo.
Il nonno spargeva lo zucchero sui pomodori e ve li mangiavate lì bevendo bottiglie di dolce spuma rossa. Si era fatto tardi e tornavate a casa al tramonto e tutta la terra era fredda e bianca. E quella sera il nonno batteva strisce di argento e ti raccontava delle storie alla luce del fuoco. E tu eri piccolo e al centro di tutto, le montagne sacre, le montagne e le colline ricoperte di neve, i burroni e le pianure, il tramonto e la notte, tutto-là dov’eri piccolo, là dov’eri e dove dovevi essere.