La stazione

Mi piacciono i luoghi affollati, dove l’anonimato e la reciproca estraneità, sono condizione certa e inevitabile. Perciò avevo preso a frequentare la stazione ferroviaria.

“Compiti a casa” è la nuova rubrica che vuole stimolare gli aspiranti scrittori a scrivere.
Di seguito la puntata del Podcast ”Esercizi di scrittura creativa” in cui è stato assegnato l’esercizio.

Esercizio: 

Racconta la volta in cui una persona si è seduta accanto a te e qualcosa è cambiato. 


Ascoltare. Amo ascoltare. Il silenzio, i rumori, le voci, la musica.

Non parlo molto. Credo che sia stato sempre così. Sin da quando ho imparato a parlare, conquista da me raggiunta piuttosto tardivamente, stando ai racconti della mia infanzia di nonne, nonni, madre e padre, sin da quando ho cominciato a servirmi della parola, l’ho sempre fatto con molta parsimonia. Specie in presenza di persone che non conoscevo direttamente, le amiche di mia madre, la vicina di casa, o anche parenti, zii e zie, che frequentavamo di rado, parlavo poco, o non parlavo affatto. Preferivo ascoltare. Ascoltavo i discorsi dei grandi, lunghi discorsi che capivo solo in parte e che dimenticavo quasi subito, essendo per me di nessun interesse.

A scuola, l’unico luogo da me frequentato in cui potevo sperimentare una qualche forma, seppure essenziale, di socialità, avevo l’impressione, quando parlavo, o tentavo di dire qualcosa, che nessuno mi ascoltasse. I miei compagni, abituati al mio silenzio, non davano peso o forse non percepivano nemmeno più le mie poche parole.

Ben presto mi resi conto che questa condizione implicava dei vantaggi. Mi permetteva infatti di eludere il nocciolo irrisolto del mio stare al mondo; era lo scudo che mi proteggeva da ciò che temevo di più: il confronto con l’altro. Affrontare l’altro, fronteggiare una situazione semplice, frequente, ma per me angosciosa, come incontrare, lungo il tragitto che da casa mi portava a scuola o quello che da scuola percorrevo per rientrare a casa, uno dei miei compagni di classe, camminare affiancati senza sapere cosa dire, nel silenzio più nero e più pesante: tutto ciò era sufficiente a sprofondarmi nell’ansia, le mani sudate, le tempie strette in una tenaglia che impediva al pensiero di prendere forma annientando il mio intelletto. Questo incontrollabile disagio ingigantiva in qualche caso o, al contrario, poteva ridursi al minimo. Se l’altro era fatto della mia stoffa, il suo mutismo diventava elemento moltiplicatore della mia ansia. Se, invece, avevo la fortuna di imbattermi in una di quelle ciarliere ragazzine che, in virtù della loro parlantina, sarebbero andate avanti, camminando e parlando, noncuranti o, in qualche caso, allegramente ignare della partecipazione e dell’ascolto eventuale della loro compagnia, se questa fortuna mi arrideva, allora riuscivo quasi a rilassarmi e a raggiungere la meta senza troppi contraccolpi.
Questa insolita quanto nefasta miscela di insicurezza, timidezza, introversione era dunque tale da pregiudicare ogni rapporto interpersonale. Quale amicizia sarebbe mai potuta nascere se la resistenza a qualunque possibilità di incontro era pressoché invincibile?

Non parliamo poi delle esperienze amorose che occupavano sempre più i pensieri e i discorsi dei miei compagni e delle mie compagne.

Guardavo il mondo intorno a me muoversi e agitarsi secondo regole, criteri, consuetudini a me estranei, per me incomprensibili e inaccettabili.

Guardavo e ascoltavo, mentre il tempo scorreva. Mi lasciavo assorbire dai libri. Leggevo e studiavo instancabilmente. A scuola, svettavo su tutti i miei compagni e questa mia manifesta superiorità accresceva la mia diversità, mi allontanava sempre più da tutto e da tutti e faceva di me una creatura incomprensibile, estranea. Una doppia estraneità di cui ero vittima ed artefice. Una parziale consolazione derivava da una inspiegabile ma fortunata circostanza: la mancanza di dileggio da parte dei miei compagni. Non accadeva infatti ciò che accade spesso in questi casi: non ero oggetto di beffa o derisione. Semplicemente, non ero.

Fin quando ho incontrato lei.
Mi piacciono i luoghi affollati, dove l’anonimato e la reciproca estraneità, il prezioso bene da me costantemente ricercato, sono condizione certa e inevitabile. Perciò avevo preso a frequentare la stazione ferroviaria. Saloni gremiti di gente che si muove con lo sguardo rivolto verso l’alto a cercare sui pannelli luminosi le informazioni più aggiornate. Mi piacciono quei saloni. Lì posso perdermi fra visi sconosciuti che non si interesserebbero a me neppure se io cercassi di ottenere la loro attenzione. Tra quella folla di individui, estranei gli uni agli altri, noncuranti ciascuno di tutti gli altri, che ora si sfiorano con un braccio, ora si urtano con una spalla, muovendosi in tutte le direzioni, mi muovo anch’io e osservo quella foresta di corpi e di teste da cui si leva un vociare tanto forte quanto inintelligibile.

Mi muovo e osservo. Cammino e ascolto. Ascolto quel vociare e immagino che sia la strana, incomprensibile voce di un gigantesco individuo fatto dei corpi delle centinaia di individui che affollano quel salone. Un gigantesco, un unico, un solo enorme e mostruoso viaggiatore che urla, parla con una voce di voci una lingua incomprensibile, stonata, sguaiata, ma attraente. Osservo e ascolto. Inseguo questa mia fantasia fin quando il gigantesco viaggiatore si scompone e scompare, mentre ricompaiono centinaia di viaggiatori che si muovono, parlano, si cercano.

Forse, ci cercavamo anche noi?

Continuo a bighellonare tra la gente. È pomeriggio inoltrato. Alcuni binari si riempiono di pendolari che rientrano dopo una giornata di lavoro. Sono quasi tutti uomini. Sembrano tutti uguali nei loro completi, quasi tutti di colore grigio: grigio chiaro, grigio antracite, grigio perla. Qualcuno è più grande d’età, molti sono giovani. Vengono tutti dallo stesso binario, hanno viaggiato sullo stesso treno. Li osservo.

Ripenso ad allora. È passato un anno. La rivedo ora come allora.

Era pomeriggio inoltrato. La moltitudine dei pendolari aveva invaso la banchina. Una larga scia grigia si muoveva spedita in direzione dell’uscita. Ho indugiato, non so dire il perché, volevo osservarli. Ho notato allora una figuretta intenta a mantenere in equilibrio una borsa appoggiata sul bordo superiore di una valigia su ruote che tratteneva con la stessa mano con cui impugnava la tracolla della borsa. Nell’altra mano un altro bagaglio.

Il ricordo si impone nella mia mente. La sua voce. L’avrei ascoltata per tutta la vita, anche se avessi avuto il dono dell’immortalità. La sua voce e la sua viola. Se parlava, se cantava, o quando suonava, qualcosa si scioglieva dentro me e si portava via le paure, il ricordo dei tanti fallimenti che la mia solitudine rendeva palesi: mai un’amica, mai un amico, mai un’anima viva con cui mi fosse stato possibile stabilire una qualche forma di relazione. Nessuno.

La sua voce. La sua musica. I suoi abbracci.

Ancora non so spiegarmi come sia accaduto tutto ciò. Una ragazza, una sconosciuta mi avvicina, mi chiede un’informazione all’uscita della stazione e comincia a parlare e raccontare e poi mi invita a casa sua; e io, che in tutta la mia vita non avevo mai neppure scambiato due parole con un mio simile senza diventare preda del panico, meno di un’ora più tardi sono nel suo appartamento. Lei parla. Io ascolto. Poi si mette a suonare. È tardi. Immagino, ora, che fosse tardi. Ma il tempo, dentro quell’appartamento, non esisteva più per me. Lei continua a parlare. Io l’ascolto. La sua voce suona come una musica. L’avrei ascoltata per l’eternità. Per pochi brevi momenti mi risveglio da questo incanto e mi guardo intorno. La casa è minuscola: un solo ambiente, un letto coperto di cuscini, un tavolo coperto di spartiti, un pavimento coperto di tappeti di tutti i colori.

Il cielo si è scurito, ormai è sera. Oltrepasso la vetrata. L’aria fredda mi viene incontro e mi scuote. Vorrei piangere ma sento ancora la sua voce dirmi a che ti serve piangere. Anche una frase così dura, pronunciata dalla sua voce, diventava la più armoniosa delle sinfonie.

Mi guarda mentre io osservo stupita la sua casa. Adesso è anche tua, mi dice.

Ancora non so spiegarmi come sia accaduto tutto quanto. Una sconosciuta mi chiede un’informazione, poi mi invita a casa sua per parlare di musica, e poche ore più tardi sono nel suo letto.

Ripenso a lei, alla sua voce. Non riesco a non tornarci col pensiero. Eppure, ho promesso. Le ho promesso che non ci avrei pensato più. Va bene così, mi ha ripetuto. Siamo state bene insieme il tempo che siamo state insieme. Lo diceva sorridendo. E io l’ascoltavo.

Adesso è tardi davvero. I ricordi mi hanno condotto sulla strada di quella casa piena di cuscini, di spartiti e di tappeti. Le tapparelle sono abbassate. Nessuna luce filtra.

Ripenso a lei. Ripenso alla sua voce, a quando l’ascoltavo e mi beavo di quella musica.

Ripenso al mio passato. E so che è il mio passato. Non una lacrima mi bagna il viso.

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