Eravamo io, Pasolini e Kafka sulla Casilina

Presentazione del nuovo numero di Achab, dedicato a Pier Paolo Pasolini, nel centenario della nascita.

Mi è capitato di partecipare sabato 30 aprile a un incontro presso la Casa della Cultura di Villa De Sanctis in Via Casilina a Roma, in occasione della rassegna “Roma racconta Pasolini“ nel centenario della nascita. Veniva presentato il nuovo volume di una rivista che leggo da sempre e talvolta mi ospita con qualche breve scritto, “Achab Rivista Letteraria”. Il nuovo numero è dedicato appunto a Pier Paolo Pasolini ed è curato da Giuliana Vitali e Nando Vitali, con Andrea Carraro. C’erano a parlarne anche Sandro Medici (giornalista, scrittore e politico) e Andrea Di Consoli (scrittore e critico letterario).

Io vi consiglio di procurarvi la rivista e di leggerla, anche perché ci sono pagine molto interessanti di oltre trenta autori, da Filippo La Porta a Nicola Fano, da Simona Baldelli a Paolo Vanacore, da Daniela Matronola a Daniela Tani, da Davide Grittani ad Angelo Ferracuti, da Ascanio Celestini a Erri De Luca, ecc. Oltre a illustrazioni e immagini di gran pregio.

Intanto vi allego qui il resoconto, appena lievemente aggiustato nella forma, del mio intervento. Prima di leggerlo, per capirlo, probabilmente bisogna comprendere che Villa De Sanctis oggi è un luogo molto accogliente, davvero bello direi. E il V Municipio lo tiene come un gioiellino, bene ha fatto Kulturjam ad ospitare “Achab” in questo parco cittadino per l’occasione inondato di sole, molto vicino ai luoghi che Pier Paolo Pasolini veniva a visitare negli anni ’50, ’60 e ’70 del Novecento. Però quando io avevo tredici anni era un luogo molto diverso. Ed ecco il mio intervento:


Villa De Sanctis, oggi

Io sono qui come rappresentante della Roma che Pasolini veniva a visitare. Perché io ho vissuto da queste parti, qui, anzi là, dietro quei palazzi, ed è per questo che quando la direzione di “Achab” mi ha chiesto di scrivere di Pasolini, io per un po’ sono rimasto senza parole, nel senso di senza parole da scrivere. Che potevo dire io di Pasolini? Pasolini è morto nel 1975, io avevo 14 anni. Chi era per me Pier Paolo Pasolini? Per me e per i miei amici – io ero mediamente borghese, ma, i miei amici, alcuni vivevano nelle baracche – Pasolini per noi era un uomo ricco e fortunato e frocio, lo so, pare brutto dirlo ma nel 1973, quando noi eravamo dei bambini di 12, 13, 14 anni Pasolini veniva considerato dai nostri genitori un regista omosessuale e poiché non vivevamo proprio, diciamo così, a Milano 2, all’epoca per noi era semplicemente un frocio.

Immaginate cos’era questo posto qui nel 1973/74, questo posto dove siamo adesso. Questo, lo dico, e un po’ fa ridere e un po’ me ne vergogno ma lo devo dire, questo è il luogo dove io per la prima volta ho fatto l’amore. Pensate che strana forma romantica, che bizzarrie che sono le coincidenze, mi ritrovo qui a parlare di Pasolini e ho fatto l’amore in questo posto. All’entrata c’era una pizzeria, mi pare che si chiamasse la Carovana, e vicino alla Carovana c’era un giardinetto che si trovava tra la pizzeria e tutto il resto, forse c’era già il circolo del tennis ma non so cos’altro ci fosse, perché qui era veramente un luogo malmesso, Hic sunt leones avrebbe detto qualcuno, e qui per la prima volta ho fatto sesso, senza sapere bene di cosa si trattasse, come succede a tutti, del resto.

All’epoca, uno dei divertimenti preferiti tra me e i miei amici era quello di andare a vedere le puttane, che poi per noi ragazzi era anche un modo per cercare di capire che cosa fosse il sesso. Poi avevamo anche un’idea un po’ avventurosa ed era quella di andare a tirare i sassi ai froci (l’ho scritto anche nel racconto che alla fine “Achab” ha pubblicato nella rivista). C’era una coppia di ragazzi, molto più adulti di noi, che vivevano in una casetta abbastanza lontana da casa nostra, per cui quei ragazzini che eravamo noi potevano pensare che si trattasse di un’avventura, un po’ come se fosse una versione pasoliniana di quel racconto di Stephen King che si chiama The body, che poi è diventato il film Stand by me. Così un giorno noi siamo andati a tirare i sassi ai froci, naturalmente non ci siamo nemmeno arrivati vicini, perché i due ragazzi appena ci hanno visti, ci sono corsi dietro e sono venuti giustamente a prenderci, noi siamo scappati ma uno di noi l’hanno anche preso e non gli hanno fatto niente, ma tra noi pensavamo che, sicuramente, gli avevano fatto qualcosa di brutto.

Eppure, malgrado questo, di tutti gli scrittori che la scuola cercava in ogni modo di farci digerire, il Manzoni, i grandi poeti romantici, qualcuno dei quali ci sembrava un po’ più vicino a noi, tipo Foscolo perché ci piaceva quello spirto guerrier che entro mi rugge, ci dicevamo che c’era qualcosina che ci somigliava, poca roba ma insomma… Gli unici due scrittori che sono arrivati a noi ragazzini di quell’età sono stati Kafka e Pasolini.

Allora io ho cominciato a ragionare su questa cosa, perché poi Pasolini è morto subito, non ho avuto il tempo nemmeno di appassionarmi ai suoi combattimenti contro il potere.

Mi ha fatto molto arrabbiare come lettore. Mi faceva arrabbiare il suo tentativo di essere comunista, anzi il miglior comunista che ci fosse mai stato, mi faceva arrabbiare: “Guarda, Pier Paolo” ci discutevo tra me e me “ma come fai? Ancora? Ma non hai capito?”.

Mi faceva arrabbiare il suo tentativo di combattere il cattolicesimo facendo i film su Gesù, dicendo di essere ateo e nello stesso tempo inverare la propria identità in questo scontro con la fede.

Naturalmente era già morto, quindi potevo permettermi questa libertà di pensiero, era un problema tra me e l’immagine che io costruivo di lui. Perché non è il mio giudizio che conta, non c’è bisogno neanche di giudicarlo, ed è perfino troppo presto per giudicarlo. Io penso che bisognerebbe parlare nel centenario della morte di un autore, non in quello della nascita. Il centenario della nascita lo trovo troppo vicino alla vita dell’autore. Forse tra altri 100 anni sapremo qualcosa di più di questo immenso corpus di opere, che però è venato di ideologia, un’ideologia che pesa ancora nel giudizio. Giudicare Pasolini oggi sull’ideologia di Pasolini sarebbe come leggere di Leopardi la poesiola All’Italia dove c’è quel famoso verso che tanto mi faceva ridere: “Procomberò sol io”, ecco se uno leggesse di Leopardi questo verso probabilmente penserebbe che è peggio di un Carducci, no? Quindi si potrà forse avere una visione di Pasolini tra 100 anni proprio perché è troppo grande e complesso, però per esempio a me di Pasolini piace tutto l’aspetto fantastico – e qui bisognerebbe capire che cosa si intende con fantastico, il modo in cui lo intendo io – ed è magari quello che unisce Pasolini a Kafka.

Facendo un po’ di ricerche in uno dei siti su Pasolini, ho scoperto che nel 1951 Pasolini è andato a Bari, è arrivato alla stazione di Bari, e arrivando alla stazione di Bari scrive che per raccontare quello che gli stava succedendo ci sarebbe voluto Kafka: “Kafka, ci vuole Kafka. Scendere dal rapido, non potere entrare in città né avanzare di un passo fuori dal viale della stazione, può accadere solo al personaggio di un’avventura kafkiana”.

E allora forse posso pensare di comprendere perché arrivavano a noi insieme questi due giganti così tanto differenti, apparentemente, l’uno dall’altro: perché entrambi, Pasolini e Kafka, rappresentavano di fronte ai nostri occhi di ragazzini il potere schiacciante del mondo su di noi. Entrambi ci rivelavano che eravamo fragili, sottoposti ai nostri sentimenti emozionali, alla nostra sensorialità, al sesso, e schiacciati dal potere.

Allora mi sono rivisto tutto il Pasolini che piace a me. E ho scoperto che il Pasolini che piace a me è quello che non si adatta alla realtà, perché la realtà ti schiaccia. Pensate al suo manifesto politico più famoso, quello che abbiamo letto tutti: “Io so”. Uno gli potrebbe dire: “Va bene, se sai, vai dai carabinieri, Pier Paolo”. Ma no, non posso andare dai carabinieri, perché non ho le prove. “Allora non sai, Pier Paolo”. Ma io so, perché la colpa è della Democrazia Cristiana che… “Sì, sì, lo so anch’io, lo sappiamo questo, lo sappiamo tutti, cioè noi viviamo qui, hai capito, Pier Paolo, lo sai, hai presente dove viviamo noi? Hai presente le nostre case, Pier Paolo? Le nostre strade, i nostri autobus? Lo sappiamo tutti, la Democrazia Cristiana, ok, forse una parte di colpa ce l’ha anche il partito comunista, va bene, lo sappiamo, Pier Paolo”.

Ma allora perché, perché è così potente quell’”Io so”? Perché è kafkiano. Perché rappresenta la persona che non si adatta alla realtà, non gli basta la realtà, non gli interessano la verità giudiziale e le prove. Vuole superare la realtà, opponendosi al potere che lo schiaccia, perché lui lo sa ma non lo può dire, lo sa ma lo dice inutilmente. Che cosa ci piaceva di Kafka, in fondo? Lo scarafaggio, scoprirsi scarafaggi, scoprirsi scarafaggi nella Metamorfosi, schiacciati dalla famiglia, beh, come finisce lo scarafaggio ve lo ricordate? Come finisce lo scarafaggio di Kafka è simile a come finisce Pasolini, più o meno. E non è che Pasolini volesse rifare Kafka, ma qualcosa li unisce, qualcosa unisce, per esempio, Il processo, Il castello e il film Salò e le 120 giornate di Sodoma. Sono storie di personaggi schiacciati dal potere.

Questo essere schiacciati dal potere probabilmente fa di Pasolini e di Kafka due figure che potevano arrivare anche a dei ragazzini di 13 anni. Però per noi Pasolini era anche l’uomo ricco che con la macchina sportiva andava a prendere o comunque ad avere amicizie con ragazzini un po’ più grandi di noi, i pischelli che eravamo noi, i coatti che eravamo noi, i coatti con la faccia bruciata dal sole – come diceva lui.

Quello che trovo drammatico, paradossalmente drammatico, nella mia visione di Pasolini è che lui combatteva in nome di un proletariato che non so se esistesse. Quello che tutti noi volevamo era diventare uomini medi, una figura che lui aborriva, i miei amichetti di allora, che vivevano nelle baracche senza acqua e senza strade, volevano diventare borghesi; quindi, c’è anche questa specie di contraddizione nella mia ammirazione controversa per Pasolini.

Poi a un certo punto, quando sono diventato più grande, mi sono riconciliato con Pier Paolo Pasolini leggendo una cosa che avevo già letto ma non mi era mai arrivata così fino a quel momento.

Mi si rivelava la forza di Pasolini come scrittore.

Ora vi leggo questa cosa che conosciamo tutti, il finale di un suo romanzo e poi finirò di parlare, perché basta, pure troppo, anzi scusate.

Però il fatto che mi piacesse questa pagina che sto per leggere, voleva dire che lui aveva trovato il modo letterario per far parlare i suoi personaggi come parlavamo noi, altrimenti io per primo l’avrei trovata “finta”, “falsa”.

Dopo che gli anziani ebbero salutato e se ne furono andati, Lello e il Zucabbo, restarono ancora un pochetto lì, senza decidersi a lasciarlo. Alla fine il Zucabbo cacciò dalla saccoccia un po’ di pere e due banane: ecco perché erano così impalati, e non sapevano che dire.
«La frutta me portate?» chiese Tommaso. «Ma che fate? Li fiori, me dovete portà!»
«Piantala, a Puzzì» gli fece eco il Zucabbo, mettendo le pere e le banane sul letto: ma gli scappava da piangere, pure a lui.
«Che ca… piagnete, qui se c’è uno che deve piagne, so’ io» fece Tommaso. «Che? Morite voi?»
Con gli occhi lucidi in quelle facce coatte, abbruciate dal sole e dalla fame, Lello e il Zucabbo stavano ancora lì non si muovevano.
«Ma annatevene!» disse Tommaso. «Invece che stamme a fa’ compagnia a me, annate a rompeve le corna de fora, che oggi è domenica!»
Voltò la faccia da quell’altra parte, e non parlò più.
Ma morire, s’era impuntato che doveva morire dentro il letto di casa sua: e difatti, il permesso di riportarcelo, glielo diedero facile ormai. Era una bella giornata, dolce dolce, degli ultimi di settembre, col sole che splendeva nel cielo senza una macchia, e la gente che chiacchierava, che cantava, per le strade, nei caseggiati nuovi.
Come Tommaso rifù nel suo lettino, gli sembrò quasi di stare un po’ meglio. In fondo in fondo ancora non l’avevano benedetto; da qualche ora la tosse gli si era fermata, e aveva pure chiesto alla madre un po’ di quella marsala che gli aveva portato Irene. Ma poi, come diventò notte, si sentì peggio, sempre di più: gli prese un nuovo intaso di sangue, tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso.

Ecco io penso che, tra 100 anni, se sarò ancora vivo (e non lo sarò ovviamente) e scriverò qualcosa di critico su Pasolini (e lo scriverà forse qualcun altro), parlerò del linguaggio di questo brano qui. Perché Pasolini comincia scrivendo la lingua dei coatti, addirittura con gli errori di ortografia, poi lentamente quando si avvicina al momento in cui deve parlare della morte, con una capacità lirica che pochi scrittori secondo me hanno anche oggi, cambia il suo linguaggio – senza che noi ce ne accorgiamo – e comincia a scrivere una scrittura quasi montaliana (Era una bella giornata, dolce dolce, degli ultimi di settembre, col sole che splendeva nel cielo senza una macchia, e la gente che chiacchierava, che cantava, per le strade, nei caseggiati nuovi), io già mi ci vedo pure i limoni…

Ma è sul finale che la sua struttura linguistica è proprio incredibile, è come se mettesse insieme due versi della poesia classica italiana: “tossì, tossì, senza più rifiatare”, “e addio Tommaso”. Oltretutto con quell’ultima frase in cui riverbera ancora l’eco del romanesco italianizzato, tipo: “E ciao core”, “E ciao Nì”, “E addio Tommaso”.

Ecco, è tutto qua.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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