A un ex professore di chimica in pensione viene commissionata una consulenza su una sconosciuta piantagione di caffè nel cuore dell’Africa.
Quinta puntata
La sveglia suona quando il sole ancora deve alzarsi del tutto. Dolorante e affamato Castelli raggiunge la grande cucina; frutta e carne essiccata lo aspettano sul tavolo.
La giovane cuoca già in divisa gli comunica che Sir Mac Hamay non sarà disponibile per tutta la giornata e che lui può iniziare il lavoro senza attenderlo.
Castelli annuisce e si affretta a consumare la sua colazione. Ama lavorare da solo.
Mi sento meglio. Le ossa sono intatte, la pancia in equilibrio. Pensa. Forse questi soldi non saranno così difficili da ottenere.
Veste la sua camicia più leggera di lino acquistata a Milano mesi prima. La piantagione di giorno ha tutto un altro potere e il caldo bisogna combatterlo. Sono giorni di fioritura, deve aver piovuto. Conosce tutte le varietà di piante di caffè al mondo, al pensiero di una pianta curativa sorride.
Osserva arbusti vigorosi, puliti, le foglie sono di un verde intenso che riverberano l’alba, lucide e sane, carnose; sono piante alte quasi quattro metri in barba alle difficoltà di raccolta, ragiona Castelli.
Le distanze rispettano le proporzioni per arieggiare bene tutta la piantagione, la pulizia del terreno è incredibile, il professore stupito da tanto rigore sgrana gli occhi strusciandosi il capo per asciugarsi la fronte. Fiorellini bianchi tutti intorno vivacizzano il paesaggio, alcune piante danno luce alle prime “ciliegie verdastre”. Castelli ne coglie una, la drupa contiene due semi di arabica avvolti da una sottile pellicola argentea. La tiene tra le mani, la odora la tocca e la odora di nuovo. È sempre una prima volta.
Suda un po’, espira; l’ansia, lo stress, quel suo essere compulsivo svaniscono quando il raziocinio e l’esperienza lo immergono nell’analisi del caffè.
La ricerca è meticolosa. Una pianta alla volta, odore e tatto più che i colori sono i fattori utili per Castelli. Di anomalie neanche l’ombra.
Si fa sera, poi giorno di nuovo, le ricerche si ripetono. Per tre giorni Mac Hamay non si fa vedere. All’alba del quarto giorno eccolo sulla porta della cucina, il volto scavato e vigile, gli occhi velati da un’apparente morte certa.
Forse sono suggestionato dal racconto della malattia, si può mica vedere la morte negli occhi di un uomo. Per Diana.
Sul tavolo della cucina l’occhio di Castelli nota le copie dei suoi documenti e di un visto.
– Come procede, professore?
– Ancora niente. Oggi ho l’ultimo quarto di terreno del luogo che mi ha indicato. Una domanda, la leggenda dice che l’uomo trovò quattro uomini ad attenderlo, giusto?
– Sì.
– Attendevano sulla tomba che stavano scavando?
– Sì professore. Perché?
– Ho un’idea.
– Mi dica Castelli, la prego.
– Venga con me, potrebbe essere il giorno giusto.
Il cielo scuro preannuncia un potente temporale, da ovest i due sentono tuoni rimbombare. Castelli ha la pelle asciutta e lo stomaco allineato.
– Oh, per offrirmi trentamila euro quest’uomo deve avere una notevole considerazione di me. Quest’aria appiccicosa e densa mi sta dando nuova linfa vitale, mi stimola. Cammina a passo spedito mentre parla a sé stesso, a bassa voce.
Si strofina le mani.
Le prime gocce li colgono all’altezza dell’ultimo pezzo di terra da supervisionare.
Mac Hamay lo guarda. Castelli resta fermo.
Piove un acquazzone violento, estivo, di quelli che odorano subito di terra. Castelli si guarda intorno, annusa, osserva. Aspetta.
– Professore, allora? – Grida Mac Hamay per sovrastare il suono della pioggia.
Castelli non risponde. Non si muove. Respira.
– Professore, mi sente? Professore!?
– La leggenda. – Grida Castelli. – Narra del Dio Waqa che “vede” il corpo senza vita dell’uomo. Vede. Come può vederlo se è sepolto in una tomba come la intendiamo noi? non può vederlo, giusto?
– Ha senso.
Gli occhi di Mac Hamay si muovono veloci, Castelli nota un lampo che non aveva colto durante l’incontro del primo giorno.
– Bene, ho controllato i rituali funebri degli Oromo. Sa dove si svolgevano?
– No.
– All’interno di cripte sotterranee. Credevano in questo modo lo spirito del defunto potesse albergare nel sottosuolo e rendere feconda la terra.
– Ho puntato sul cavallo giusto, ma come ho fatto a non pensarci. E come lo ha scoperto?
– Ricerche notturne e una spintarella in sogno. Ho un inconscio che lavora sodo.
La pioggia li inonda, le gocce sfilano veloci sulle foglie delle piante di caffè.
– Cerchiamo una cripta sotterranea. Se esiste, la pioggia ci aiuterà. Con il terreno molle possiamo osservare irregolarità o solchi e scavare.
– Professore, sento nella sua voce un’emozione fanciullesca. La credevo scettico.
– Lo sono. Ohh se lo sono. Non troveremo la sua pianta, ma vale la pena tentare.
I due si guardano intorno, il terreno è morbido, bagnato. Castelli si blocca.
– Lì! – Grida. – Guardi! –