Se c’è un ambiente dove si affolla un’umanità composita, come si direbbe con una frase fatta, questo è il condominio. E sono molti i romanzi che l’hanno utilizzato come ambientazione. Ce n’è uno che consiglio a tutti, Il condominio, di J.G. Ballard. Poi c’è La finestra sul cortile, di Cornell Woolrich, che divenne il celebre film di Alfred Hitchcock. Ma ce ne sono diversi altri, come uno che ebbe un certo successo perché almeno qui in Italia era uno dei primi a raccontare la nostra società che diventava multietnica, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous. Oltre a tutti gli autori che, da Agatha Christie a Simenon, hanno usato un palazzo per far svolgere delitti e investigazioni. Così mi ha incuriosito un romanzo appena pubblicato che fin dal titolo indica un numero civico, Via Guglielmo da Spello, 17 (Castelvecchi 2021) di Franco De Chiara. L’autore ed io ci siamo incontrati – come può succedere solo nella nostra epoca vituperata ma in fondo piena di stimoli – per una discussione su Facebook abbastanza banale, e alla fine mi è venuta voglia di leggere il libro. E poi di intervistarne l’autore, che ha costruito una storia che segue una linea narrativa esile, l’arrivo di un nuovo portinaio straniero nel palazzo, qualche crepa da riparare e lo scambio di comunicazioni burocratiche che ne seguono, ma che gli permette di tracciare con lieve ironia e uno sguardo acuto le vicende di quelli che in Via Guglielmo da Spello, 17 conducono le loro vite. Ed ecco le nostre domande e risposte.
Sei già al quarto romanzo, oltre ad aver lavorato come regista e inviato per la Rai, aver scritto teatro, ecc., cos’è che ti appassiona nella scrittura narrativa?
Come avrebbe risposto Ennio Flaiano, il mio Sommo Maestro, questa, più che una domanda, è una dichiarazione di intenti, una tesi di laurea, un discorso sui Massimi Sistemi…
Dunque, vediamo. La risposta più semplice, di pronta beva, potrebbe essere quella di Joseph Conrad, al riguardo: “Scrivere è come viaggiare, ma senza avere l’ingombro dei bagagli da portarsi dietro”.
La questione per me, dopo queste due Alte Citazioni, è molto più semplice: inventarsi una storia, farla propria fin nei minimi dettagli e poi provare a raccontarla è meraviglioso. Detto così sembra semplice, ma non lo è affatto, perché scrivere vuol dire, almeno per me, sofferenza e fatica inimmaginabile. Tu stai lì con quel grandissimo figlio di madre sconosciuta, che è il foglio di carta desolatamente bianco, che ti guarda e ti sfida… dai, omuncolo travestito da scrittore, vediamo che cosa sai fare, sono proprio curioso…
Invidio Simenon, che adoro, che si metteva al tavolino e procedeva come un Frecciarossa, beato lui, un Maigret completo in una settimana e SENZA NEMMENO RILEGGERLO, lo mandava direttamente al suo editore.
Il fatto è che lavorando come inviato televisivo per così tanti anni, soprattutto in un famoso programma di Raitre che non voglio nominare perché ci siamo lasciati maluccio, ebbene, credo di essere stato in due terzi dei Paesi raffigurati sul Planisfero, a inseguire mariti che avevano mollato gli ormeggi, mezzi malfattori, fricchettoni vari ed eventuali… l’Umanità insomma. E mi sono reso conto che tutto quanto stavo vivendo era troppo, troppo esagerato, troppo veloce. Un preavviso di una o due ore e poi partivo per Foligno, o per Sidney, magari avendo solo una fotografia sbiadita e un indirizzo nemmeno troppo attendibile.
Un giorno, credo nel 2008, mi sono reso conto che tutto questo era pesante da tenerselo dentro, e così ho cominciato a raccontare le peripezie di un inviato televisivo. Avrei potuto finirla lì, con Non più di nove minuti ma c’era sempre quel foglio di carta che mi provocava, così ho provato a spingermi oltre. Nel senso che raccontare quello che mi capitava era fin troppo semplice, per cui ho iniziato a inventare altre storie. Storie mie, che prima non esistevano, ecco, credo che il senso della narrativa (ma anche del cinema, della pittura, della musica, ecc) sia proprio questo: creare dal nulla qualcosa che prima non c’era, se non nella mente del pazzo che vuole abbracciare la professione dello scrittore. La cosa che trovo interessante, però, è che nessuno ti ha chiesto di farlo, e il mondo sarebbe andato avanti lo stesso anche senza Dostoevskij o senza Gian Lorenzo Bernini.
Tuttavia, rimane il fatto che oggi in Italia scrivono in troppi: sei stato rapito dagli eschimesi? Scrivi un libro. Sei stato un calciatore di una qualche notorietà? Scrivi un libro. Ti è morto un figlio in un incidente stradale? Scrivi un libro? Sei sopravvissuto ad un cancro devastante? Scrivi un libro. Anzi, scrivi un libro per modo di dire, perché in questi casi te lo fai sempre scrivere da qualcuno prezzolato….
Eccetera. Ecco, oggi questo proprio mi da fastidio, tanto che tra poche ore il numero degli autori supererà quello dei lettori, roba da matti…
Il fatto è, purtroppo, che tutta questa robaccia di cui sopra non è narrativa, non è niente, è solo marketing da seconda elementare.
Scrivere è ben altra faccenda. Per cui, tornando alla domanda iniziale rispondo che della narrativa mi appassiona tutto, sia da lettore, che da scrittore.
Ma forse mi sono dilungato troppo….
Sembri conoscere molto bene il condominio di Via Guglielmo da Spello 17, ci hai vissuto?
Il condominio di Via Guglielmo da Spello 17 non esiste, inutile cercarlo sullo stradario di Roma. Esiste nella mia fantasia, che ha rubacchiato di qua e di là, da molti condomini in cui ho vissuto, che ho frequentato, o dei quali ho avuto notizie. Credo che sia stata la cosa più importante inventarlo, dargli nome, cognome, colore e collocazione, la base sulla quale inserire tutto il resto. Probabilmente questa è stata la parte più facile e divertente da scrivere. Per il resto, lo stabile di via Guglielmo da Spello è reale, o irreale, come la Fortezza Bastiani, fatte le debite proporzioni tra un gigante come Buzzati e un moscerino come me.
Nella storia che scrivi c’è una condanna umoristica della burocrazia, che ha molte responsabilità nel finale, che non sveliamo. Ti sei rifatto alla tradizione di romanzi e racconti che ne parlano, c’è qualche autore che ti ha ispirato?
La burocrazia esiste, credo, dai tempi degli Assiro-Babilonesi. Poi, è logico, alcuni Paesi come l’Italia l’hanno elevata a vette sublimi, lo sappiamo e lo subiamo. Consiglierei, in proposito, un libro di Augusto Frassinetti, Misteri dei Ministeri, anche se ormai introvabile, temo. In ogni caso, da Balzac a Gogol, la burocrazia è stata sempre presente, quasi a voler sottolineare che, alla fine, è l’essere umano stesso che prova un indicibile piacere a complicarsi la vita da solo…. Se poi vogliamo entrare nel merito, nella cronaca, è probabile che il Ponte Morandi sia crollato più per il peso della burocrazia che non per fatti tecnici. Ma questa è un’altra storia.
Hai descritto personaggi realistici, arricchiti da una venatura talvolta surreale, come nel caso di alcuni cognomi del tipo “Nomen omen” come Evaristo Bellassai, Francesco Aiutamicristo. E questa faccenda del cognome è una costante nel romanzo. Per esempio a un personaggio lo scrivono senza una “p”, un altro ne rivela la storia sorprendendo i suoi allievi. Perciò ti interessa il gioco linguistico intorno al cognome?
No, è del tutto casuale. Certo, la faccenda del “Nomen omen” è divertente, e ti sorprende sempre, ma il cognome è una di quelle cose della vita che ti ritrovi senza poter scegliere, e va bene così. In altre parole, un nome per me non significa niente, ti puoi chiamare Rossi o Squartalavecchia, ma, a parte il primo impatto, trovo molto più interessante scovare chi c’è dietro a quel nome e cognome.
Racconti un’umanità molto composita, che va dal portiere Annibale, al suo successore Ranil, a tutti gli abitanti del condominio con le loro storie e professioni più diverse. Quali sono i confini di questi personaggi, chi sono?
A questa domanda non sono in grado di rispondere. I personaggi nascono nella mente di chi scrive, ma poi tendono, per fortuna, ad andarsene per i fatti loro. Mi permetto di citare un racconto breve di Pirandello, non ricordo il titolo, in cui parlava esattamente di questo: il Maestro se ne sta di notte al tavolo del suo studio, nella palazzina dietro la Nomentana dove abitava a Roma, e, all’improvviso i pesanti tendaggi di velluto cominciano a muoversi. Ne escono alcuni personaggi da lui creati in alcune novelle (c’è un’aria da Sei personaggi, ma molto più casalinga…), i quali si lamentano con lui del poco spazio che Egli gli ha dato. Oppure di un amore finito male, e così via. Pirandello li ascolta tutti, pazientemente, ma poi, alla fine, si rompe i coglioni delle loro lamentele, e, infastidito, li rispedisce tutti nella dimensione che compete loro: quella dell’immaginazione. La sua.
Sembrerebbe che l’arrivo del nuovo portinaio Ranil, uno straniero, desti preoccupazione solo nel vecchio custode che verrà sostituito, cioè Annibale. Gli altri (a parte qualche battuta) sembra che non se ne curino. Quindi il razzismo è solo in Annibale, che lo chiama “negretto”?
La questione del razzismo, in Italia, è piuttosto complessa, e molto difficile da affrontare con oggettiva serietà. Io mi sono fatto l’idea che gli italiani sono affetti dalla peggiore forma di razzismo, che non è quella palese del Ku Klux Klan. Paradossalmente, in tal caso sarebbe tutto più facile. No la faccenda, a mio modo di vedere, è la seguente: non esiste popolo più razzista di quello che fa di tutto per non sembrarlo. E noi, gratta gratta, siamo così: nel 1997 a Miss Italia, venne incoronata una ragazza domenicana di colore, che non era nemmeno particolarmente bella, solo e soltanto per poter gridare istericamente al mondo “Vedete? Noi non siamo razzisti!!!!”. Se a questo, poi, aggiungi il conformismo stantio della sinistra (alla quale, ahimé, appartengo) le cose peggiorano ulteriormente: guai a parlare male di una persona di colore, anche se costui si comporta da stronzo !…. Io, per quel che mi riguarda, continuo a credere che se uno è stronzo è stronzo e basta, sia esso scuro di pelle o biondo e sbiadito come un finlandese, ma non è così semplice….
Qual è il peggior difetto di chi abita in via Guglielmo da Spello 17?
Non ne ho la più pallida idea.
Una delle parti più buffe è quella dello scontro tra Evaristo Bellassai e Francesco Aiutamicristo su temi religiosi satireggiati. Qual è il tuo rapporto con le religioni?
Non ho alcun rapporto con nessuna religione. Sono ateo, e la vicenda del depresso in ospedale, quando litiga con il prete, è un pezzo preso pari pari da un momento difficile della mia vita. Per me dio è davvero “l’amico immaginario”, e mi stupisco sempre quando trecento persone in una chiesa si rivolgono al nulla, ad un personaggio di fantasia come Paperino. Ma meno divertente. Detto questo, mi sento sufficientemente evoluto e democratico per rispettare coloro che sono credenti, purché quando ci incontriamo discutiamo solo del centrocampo del Sassuolo. Altrimenti, ove cercassero di fare proselitismo, io divento una bestia. Sono sicuro che la storia della intera Umanità sarebbe stata migliore se non ci fosse stato nessuno che doveva dimostrare a qualcun altro (di solito con una discreta violenza e spargimento di sangue) che il suo dio è meglio di quell’altro.
Le crepe che aumentano nel palazzo, per te hanno un valore simbolico oltre che realistico?
Credo di sì, una crepa significa problemi strutturali e manutentivi, ma è anche un simbolo evidente di incuria, di lassismo, di sottovalutazione del pericolo, perché, tanto, “le disgrazie accadono sempre agli altri”. Accade, tuttavia, che molto spesso “gli altri” siamo noi medesimi stessi in persona.
Il finale del romanzo è visto in televisione da Marco Lavagna, il pilota di aerei che si trova molto lontano, a Dubai, perché l’hai scelto come testimone? C’è un motivo preciso?
Marco Lavagna non è l’unico sopravvissuto, ci sono anche il Re dei Depressi e Ranil. Il Caso ha deciso così, io l’ho soltanto… ratificato.