Arriva un momento in cui qualcosa che sembrava infrangibile va in mille pezzi, accade anche alle montagne, figuriamoci alla nostra fragile vita di tutti i giorni. Se poi avviene un evento terribile che s’infila come un cuneo a spezzarla, allora non c’è niente che possa rimetterla insieme. Oppure no? È questa la domanda che percorre Non ho mai visto inciampare l’amore (edizioni Augh!, 2020), l’ultimo romanzo di Chiara Briani, autrice finora di due opere molto diverse tra loro (Voglio potermi arrabbiare, Alter Ego 2016, e Mrs Grace, Alter Ego 2017) oltre a vari racconti. Se Voglio potermi arrabbiare era la narrazione di un caso clinico e Mrs Grace la storia di una terribile vendetta, qui ci troviamo di fronte a una donna e un uomo, Elena e Andrea, al loro figlio Enrico e ai pochi altri personaggi che girano loro intorno. Con uno stile molto misurato ma efficace, talvolta quasi lirico per la scelta accurata delle parole, Chiara Briani racconta i momenti cruciali della loro esistenza, in un lungo flashback che prende il via quando Elena, quindici anni dopo la fine del loro matrimonio, riceve una telefonata da Andrea: si è ricordato della promessa che si erano fatti di ritornare nel museo che un tempo li ha visti felici.
Ho chiesto a Chiara Briani di raccontarmi qualcosa di più sul suo romanzo e questa è la conversazione che ne è venuta fuori.
Questo romanzo è la storia di una divisione e di un tentativo estremo di ricucirla, ti interessava esplorare la possibilità che gli amori non finiscano?
Gli unici amori che non finiscono sono quelli impossibili 😊, è noto. Scherzi a parte, credo che nessuna relazione umana possa finire senza lasciare una traccia di sé nelle persone che l’hanno vissuta. Ed è il motivo per cui ho scelto come epigrafe questa frase di Andrés Neuman:
“Tutte le cose rotte hanno qualcosa in comune. Una crepa che le unisce al loro passato.”
La crepa è un luogo affettivo importante. Raccoglie pezzi di vita, esperienze, verità, dolori. Contiene una parte di noi. Spesso la più dolorosa, quasi sempre quella più vera.
I due protagonisti hanno qualcosa d’importante in comune, amano entrambi l’arte per esempio, ma questo non riesce a tenerli insieme, perché?
Le “cose” più importanti che i protagonisti hanno in comune sono l’amore e un figlio. La passione per l’arte, la musica, la letteratura e le parole sono il terreno che li ha fatti avvicinare, il linguaggio su cui si è costruita la loro relazione.
Le contingenze della vita e le scelte individuali però spesso portano a rimodulare i nostri percorsi. E la lancetta dell’orologio si sposta un po’ portandoci a vedere nuovi orizzonti, ma i punti in comune restano. Vero è che l’arte e il museo restano il punto di contatto per Elena e Andrea.
La storia si sviluppa anche intorno alle promesse. Una promessa di due innamorati e una promessa fatta da un padre a un bambino, quanto contano le promesse (mantenute o non mantenute) nella tua esperienza?
Personalmente mantengo sempre le promesse e credo nella “parola data”.
La promessa a un bambino vale di più, è un impegno per la vita. Soprattutto se quel bambino è tuo figlio. Deve sapere di poter contare su di te, qualsiasi cosa succeda. La promessa mantenuta aiuta a crescere e a sviluppare la fiducia nell’altro oltre che a insegnare il senso di responsabilità.
Un altro elemento importante, quasi pervasivo, è quello degli ambienti in cui i due hanno vissuto…
I muri hanno voce e le pareti conoscono più di mille diari.
La casa dove si abita, soprattutto se scelta e arredata assieme, dice molto di noi. E al di là del colore delle pareti o del tipo di mobili, è la quotidianità che rende “nostra” la casa.
Il tubetto di dentifricio schiacciato a metà piuttosto che le spezie in ordine alfabetico o il disordine in studio. Noi siamo più in quel tubetto di dentifricio che nella carta d’identità.
Hai uno sguardo tenero verso il protagonista maschile di questa storia, che cosa ti sembra degli uomini, oggi?
Nel mio libro precedente (Mrs Grace) gli uomini non avevano brillato, forse inconsciamente ho voluto in qualche modo riscattarli.
Andrea è un uomo brillante, sensibile, con un passato affettivo non sempre facile, ma con la figura forte di un nonno alle spalle e un rapporto dialettico col padre. Andrea è un ottimo padre.
Cosa mi sembra degli uomini di oggi? Credo ci siano molti “Andrea” là fuori e molti uomini (e donne) che sanno mantenere le promesse. Non mi piacciono le generalizzazioni, si rischia il luogo comune.
Invece la donna, che pure apre in prima persona la narrazione, sembra quasi la responsabile della crisi.
La crisi non è mai unilaterale, come ogni rapporto. Se l’elastico a un certo punto si spezza, è perché uno/a ha tirato di più e l’altra/o ha permesso che tirasse di più o l’elastico si è logorato nel tempo. Non ci sono responsabilità precise in questo libro, ma sia Andrea sia Elena si interrogano e ciascuno a modo suo cerca una risposta. La storia è semplice nella sua intensità perché le drammaturgie più importanti sono nel quotidiano.
Cosa volevi dire con il titolo: Non ho mai visto inciampare l’amore?
Il titolo è stata una scelta editoriale, e riporta una frase del testo. Frase che si riferisce all’amore genitoriale, che è l’amore più incondizionato e assoluto.
Credo però che l’amore in senso lato non inciampi mai. Le persone inciampano, l’amore no.
Oltre al rapporto di Elena e Andrea, nel romanzo c’è anche la profondità del rapporto nonno-nipote, e l’intensità (e difficoltà) di quello genitoriale. Si tratta sempre di amore, in diverse declinazioni.
Terribile l’idea di un figlio che muore, come hai fatto a non distruggere l’equilibrio del testo con questo avvenimento così distruttivo?
Il lavoro che faccio (medico) mi ha insegnato a convivere con la malattia e anche con la morte, come dato fisico e ineludibile.
La malattia di un figlio è un evento devastante, che spazza via qualsiasi altra cosa e totalizza. I genitori vanno in trincea mascherando il dolore e la preoccupazione per combattere fino all’ultimo assieme al figlio. Si sopravvive solo se c’è un solido tessuto emotivo sottostante.
I sentimenti forti e i dolori hanno una grande spinta drammaturgica e narrativa. A non distruggere l’equilibrio del testo mi ha forse aiutato il fatto che la tragedia, esplicitata subito nell’incipit, viene poi elaborata in un percorso a tre, nel cui sfondo (e in alcuni flashback) intervengono anche altre figure.
Il linguaggio che usi mi pare diverso da quello delle altre tue pagine che ho letto, è stata una scelta oppure ti è venuto naturale?
Io mi riconosco molto nello stile di questo romanzo, mi è venuto naturale e lo sento molto “mio”, intimo e introspettivo. Il linguaggio si adatta al tema che si racconta e ogni genere ha bisogno di una propria (e adeguata) voce.
Il peso specifico “emotivo” di questo libro è però alto, ecco perché non è molto lungo. Sarebbe stato difficile mantenere un alto livello emotivo senza cedimenti (anche di stile).
Hai scritto una storia che nasce dalla tua esperienza professionale, un noir, racconti di pura invenzione e ora questo romanzo che esplora vita e amore senza etichette, che tipo di autrice vuoi essere?
Ora scrivo un giallo così spiazzo tutti 😊. Forse mi piace sperimentare, ma non è stato fatto intenzionalmente. Questo libro come “voce” è molto vicino ai miei racconti, vero è che l’incipit (il monologo di Elena) nacque come un racconto, che era chiuso in sé e poteva rimanere così. Una domanda aperta, come spesso nei film e sempre nella vita. Però ho voluto dare voce anche al lui della storia, ad Andrea. Ed è nato il romanzo.