NANDO VITALI: “La mia fatica era scavare in quegli sguardi”

L'autore di "Chiodi storti" racconta nel romanzo la sua esperienza con i quindici bambini di una classe in una scuola di Ponticelli a Napoli

Ogni opera di Nando Vitali non è né banale né casuale perché Vitali non è solo uno scrittore di notevole esperienza, autore di romanzi e di racconti, ma è anche il direttore di una rivista letteraria che esplora in profondità la cultura contemporanea, “Achab”, e cura laboratori di scrittura in cui insegna con un seguito attento di allievi. Vive, insomma, a fondo la letteratura dei nostri tempi. Quindi la pubblicazione di un suo romanzo è sempre un’occasione interessante di lettura. Nel 2020 è tornato in libreria per l’editore Iod un romanzo di ambientazione scolastica già pubblicato da Vitali nel 2008, Chiodi storti, da Ponticelli a Napoli Centrale. Si tratta del racconto in gran parte autobiografico di un docente che si ritrova a lavorare in una scuola di Ponticelli, uno dei tanti quartieri difficili delle città italiane. Qui incontra quindici bambini diversi ma simili che l’autore identifica con questa felice espressione, “chiodi storti”, che dà il titolo al romanzo. Una storia che rivela frammenti poetici improvvisi, squarci avventurosi, esperimenti creativi fino a culminare in una delle più singolari e appassionate visite a un museo (quello di Capodimonte) che si siano mai viste. Il romanzo è anche una riflessione sulla creatività possibile anche nelle condizioni più disagiate. Ed ecco la nostra conversazione che parte proprio dalla nuova pubblicazione di Chiodi storti.


Cosa spinge un autore a ripubblicare un romanzo, come hai fatto tu, dodici anni dopo? C’è quasi una moda in tal senso, l’ha fatto anche Andrea Carraro…
Ho ripubblicato Chiodi storti su invito di un piccolo editore come si dice “impegnato”, che pubblica testi su temi sociali. Nel mio romanzo ha visto l’altra metà dove si celava l’ambiente ostile che impediva a quei bambini una crescita felice. Io ho privilegiato l’aspetto poetico e di invenzione, pur non rinunciando al corpo a corpo con la società nella quale si sviluppava la loro crescita. Ma mi è anche molto servito per capire i cambiamenti avvenuti in oltre 12 anni da allora. Un tempo relativamente breve, eppure, dove per esempio, la rivoluzione tecnologica ha cambiato profondamente la vita e il sapere. La scuola, con tutti i problemi che la pandemia ha enfatizzato, tanto per parlare di oggi. Di quella vigna che piantai vorrei sapere cosa è rimasto. Se quella esperienza a loro è servita. A me certamente. Credo però che quei bambini oggi dovranno misurarsi con la vita ancor più che non a quel tempo, di quanto le disuguaglianze sociali si siano ampliate, e molti pericoli trasformati in fantasmi inafferrabili e silenziosi.

Ci sono stati molti romanzi scritti sull’esperienza scolastica, anzi forse non molti ma alcuni molto importanti, c’è qualcuno che puoi considerare più vicino al tuo?

L’unico romanzo che mi viene in mente è Pinocchio. (Troppo facile sarebbe rifarsi a Io speriamo che me la cavo). L’educazione alla quale viene costretto il burattino di Collodi è quella che Freud definirebbe preferenza per la sicurezza alla felicità. La conoscenza coglie nei chiodi storti il buono che c’è senza spegnerne la fantasia, l’alterità. Non vuole separare la paura dal coraggio. Quei chiodi non vanno raddrizzati, ma un talento sul quale fare leva. Trovo interessanti i libri dove la formazione incontra la strada. In fondo il modello Montessori non diceva che la conoscenza è costruzione anche del proprio sé? Qualcosa di simile lo fanno a Napoli i maestri di strada. Non ho mai letto un libro come il mio. In fondo più che insegnare volevo imparare. Ho conservato la memoria di quegli incontri come un viaggio fatto coi bambini. Una sorta di fratellanza che ha prodotto un numero infinito di particelle creative. Forse abbiamo un po’ desacralizzato per trovare gli accordi giusti, le risonanze che la vita e l’arte propongono.

Tornando a Pinocchio, (grande romanzo), sarebbe interessante rovesciare dalla carne al burattino, perché diventi di legno massello, indistruttibile, ma senza fili. L’arte non è pedagogica ma catartica. Lo scalpello di Michelangelo ci ha raccontato come liberare la forma dalla prigione che la contiene.

Che vuol dire il titolo del romanzo, Chiodi storti?

Chiodi storti vuol dire bambini apparentemente diversi. Come se la sola arma di difesa fosse l’opposizione a oltranza. Il che al principio è stato così per l’ambiente che li ha generati. Le periferie spesso difficili, se non degradate. Nel titolo voglio dire che quei chiodi non vanno normalizzati. La loro natura spesso nasconde inaspettate eccellenze. È necessario un sismografo educativo in grado di coglierle valorizzandole. Conquistare il loro cuore di eccentrici al sistema.

Il romanzo si ambienta a Ponticelli, un altro tuo romanzo, Ferropoli, è ambientato a Bagnoli, pensi che ci sia in ogni caso qualcosa di decisivo che lega uno scrittore alla sua terra?

Diceva il poeta salentino Rocco Scotellaro: la mia terra è dove l’erba trema. La terra sulla quale camminiamo alimenta il modo di scrivere, anche se la vera patria di uno scrittore è la pagina bianca, dove egli forma una città, un mondo nuovo. A volte, poi, è proprio il disagio, se non l’odio, per la propria terra a scuoterci. L’energia che ci trasmette può trasformarsi in una scossa elettrica. O il dolore per la perdita di quei luoghi dove hai vissuto l’infanzia, le cose perdute che la memoria ripara in modo cicatriziale. Talvolta il luogo nativo puoi trattarlo in maniera vendicativa quando non sei riconosciuto, e la patria si muta in un nemico quasi dalle forme umane. La celebre “Napoli matrigna” che uccide i suoi figli migliori, come si di dice talvolta.

Io ho respirato Bagnoli e mi sono fatto di ferro e carbone, forse amianto. A Ponticelli ho trovato un ponte che era la ferrovia vesuviana che mi collegava al quartiere. Quanto tornavo in treno pensavo molto. A casa poi cadevo in una mistica contemplazione della giornata vissuta con un diario di abbozzi e sensazioni. Tranci di scrittura somigliante a un sestante di navigazione. La mia vita interiore sentivo che si rifrangeva in direzioni policrome.

Una delle scene più coinvolgenti nella storia è quella che si svolge al Museo di Capodimonte. Mi ha colpito l’atteggiamento dei ragazzi che hai messo in scena. Che cosa significava per loro quella gita “culturale”?

Per la maggioranza una occasione di svago per attraversare i muri scolastici. Al principio, in pullman, una sorta di frenesia isterica. Poi una volta entrati nel museo una specie di incantamento, come sperduti in quel mondo mai visto di saloni e quadri. Subito dopo i sensi presero il sopravvento. Volevano toccare, annusare, correre. Ma per alcuni di loro la scoperta fu reale, si rendevano conto di trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato, meraviglioso che non potevano nemmeno immaginare. Mi chiedevo se in futuro sarebbero mai più entrati in un museo come quello, l’occasione non andava sprecata. Quindi creavamo cerchi possibili dove una guida spiegava le opere. Loro erano abbastanza attenti fino all’arte contemporanea, che ebbe un effetto dirompente, con un esercizio finale che li coinvolse totalmente. Ma quelle opere erano per loro incomprensibili, e volevano profanarle per conoscere. Nell’epilogo al loro esercizio volò di tutto. E fu il caos. Ma in fondo l’arte contemporanea non dovrebbe essere così? Iconoclasta e impermanente. Una sfida insomma alla nostra conoscenza.

Alla fine della visita però i bambini erano supereccitati. Si diedero “molto da fare”, per usare un eufemismo. Ci volle forza e pazienza per recuperarli e farli tornare in pullman.

Il giorno dopo feci un intervento, una sorta di arringa, un discorso dai toni molto forti per fargli capire perché avevano sbagliato. Infatti capirono, restarono in silenzio, e qualcuno di loro chiese scusa. Fu un atto riparatorio e di alleanza fra noi.

Credo che quella “gita al Museo” non la dimenticheranno. E nemmeno il “protagonista del romanzo” la scorderà. Arte liberatoria, arte di tutti, mi dicevo, ma a patto di non naufragare.

A un certo punto in questo romanzo d’impianto realistico entrano elementi che definirei “fantastici” oppure “onirici”, la realtà non era sufficiente?

La realtà in narrativa non esiste. Sarebbe un controsenso parlare di verità nell’arte. Forse somigliante alla realtà, si potrebbe dire. Però sono indispensabili elementi allegorici che diano alla scrittura lo scatto immaginativo di cui necessita. Ineffabile e interpretabile dal lettore. L’occhio dell’autore non sarà mai completamente oggettivo, freddo e distaccato. È soltanto una faccenda di stile e di punto di vista, spesso lotta coi personaggi. La vera arte mescola realtà e finzione. Fonda città invisibili, per così dire. Nuovi universi perfino. Con leggi proprie.

La realtà è quella che vivi quando esci per strada. E comunque esplorare dal vivo è un modo importante per affilare i ferri del mestiere.

I bambini del tuo romanzo sono in lotta tra il bene e il male e noi immaginiamo il loro futuro oltre al loro presente. Sai che fine hanno fatto?

Dopo quella esperienza sono passati molti anni. Non ne ho saputo più nulla. Forse è meglio così. Non ricordo nemmeno i loro veri nomi. Ma il ricordo è un mio secondo cuore, direbbe John Banville. La vita è fatta di spigoli e tornanti, ma quei ragazzi vivono dentro di me, probabilmente mi sussurrano qualcosa di tanto in tanto.

Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
Di quella esperienza rimane la sensazione di avere affrontato una parte di me attraverso loro.  Un’ombra che ancora oggi non riesco a dominare. L’infanzia è un momento decisivo, qualche volta doloroso. Mi resta comunque l’orgoglio di aver vinto la paura concludendo con un finale festoso, commovente a tratti. Anche per loro è stato così. Poi un senso di svuotamento felice mentre tornavo a casa in vesuviana. E già una malinconia tagliente.

Poesia, scrittura e disegno, cos’è più efficace per sviluppare la creatività?

La scrittura e il disegno li ho miscelati, facendo in modo che producessero storie, emozioni, desideri, paure, idee. Il disegno fa più presa perché si incarna nello sguardo, i colori vengono assorbiti nella loro infinità di forme. Però io facevo precedere gli esercizi da conversazioni corali sul tema. Per esempio il tema della Libertà si poteva raccontare con un disegno simile a una graphic novel (un uomo esce dalla prigione con un sacco sulle spalle dirigendosi verso casa, ‘un desiderio forse’…), oppure con figure sospese nell’aria alla Chagall. O storie di draghi e principesse (le bambine in particolare). Interessanti i colori usati che testimoniavano uno stato d’animo, un tono umorale, uno spleen del tutto personale.

La scrittura era invece lo sforzo di costruire un meccanismo narrativo, una storia. Con finali inaspettati che li rendevano orgogliosi quando venivano letti a voce con commento collettivo.

Quanto alla poesia l’ho sempre vista nello stupore dei loro occhi, che potevano esprimere ferocia e felicità. La mia fatica era scavare in quegli sguardi.

Sei un osservatore attento della cultura italiana anche attraverso le pagine della tua rivista “Achab”, come la vedi?

Vorrei che un suono di campane sancisse la fine della pandemia, come un’acqua manzoniana.

Achab oggi è un sommergibile che necessita di inabissarsi per tornare a riemergere sulla realtà che trovo difficile da decifrare. In modo particolare nel mondo della cultura. Vince spesso la volgarità a danno della bellezza ricoperta dal troppo parlare e poco pensare. Achab è uno spazio resistenziale dove vige l’impegno e la dedizione, ritenendo che ci sia ancora qualcosa da salvare e progettare insieme. Non vorrei che si trasformasse in un’arca di Noè. Sarebbe ovviamente un atto di presunzione. La storia va avanti, e non bisogna temere i cambiamenti affrontandoli con le risorse che abbiamo, o che ci restano.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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