Non sente più alcun sapore, non distingue più il freddo dal caldo, la lingua è un moncone, una poltiglia cicatrizzata, il palato a squame è insensibile, l’olfatto è andato. Cosa campa a fare?
I piedi nel vuoto sfiorano a malapena lo sgabello.
Appeso con le punte pronte al colpo di grazia, Papille assiste alla sua esistenza a ritroso nel tempo; molto prima dell’incidente con il Panace di Mantegazza, l’erba tossica che gli ha tolto il gusto.
Il giorno in cui compì tredici anni. Quattro bulli, belli grossi, se li ricorda nel giardino della vecchia scuola italo francese che frequentava.
Durante l’ora di ricreazione i quattro lo avvicinarono per prenderlo a spintoni.
Se ne stavano lì a prenderlo a schiaffi quando uno dei quattro, quello con la faccia più appuntita e il labbro leporino, ebbe un’illuminazione. Raccolse un insetto, un grosso scarafaggio nero che muoveva veloce le zampine appese in aria.
– Abbiamo il papà cuoco, eh nanerottolo. Vediamo se te ne intendi. – Ridevano.
Uno guardava, uno spingeva l’insetto, due gli tenevano la bocca aperta.
Papille si dimenava, ma senza mai abbassare lo sguardo. Ecco uno dei due tirare e spingere con forza su e giù la mandibola per farlo masticare. Papille ricorda lo scrocchiare secco sul palato, ricorda il suono limpido del dorso dell’animale spezzarsi sotto i denti. Le zampine amarognole e sottili solleticavano la lingua quanto le due antenne che ancora uscivano dalla bocca. Ricorda un liquido dolciastro colargli dalla lingua giù in gola.
Gli tenevano la bocca chiusa e giù schiaffi; così stupidi ricorda Papille da non accorgersi che lui avrebbe masticato lo stesso. Il sapore ricordava quello delle patatine fritte all’aglio che in estate mangiava al mare, speziate di paprika, spezia che il padre adorava.
Papille poi mosse il labbro. Iniziò ad agevolare lo sforzo dei due per lasciar intendere lo scarafaggio fosse di suo gradimento. Il disgusto iniziò a impossessarsi dei quattro; su tutti il ragazzetto più sudato, quello che guardava, ne rimase così scioccato da sferrare un pugno sul petto di Papille. Fu il ragazzino però a sobbalzare quando Papille tirò fuori la lingua sgranando gli occhi. La poltiglia dell’insetto giaceva lì, ricoperta di saliva. I quattro se la filarono. Lui cadde a terra e intuì di averli spaventati, oh sì, disgustate le quattro bestie.
Capì a tredici anni quanto violento potesse essere l’uomo e quanto relativo sia il senso del gusto.
Dondola un poco. Un calcio allo sgabello, lo fa per davvero poi basta, collo spezzato e via. Adesso!
Le punte dei piedi tirano, la corda arrossa il collo mentre ci prova davvero a uccidersi.
– Dondola più veloce Papille! – Si dice.
– Privo del senso del gusto hai perso tutto, non puoi più vivere. Nessuna recensione, followers che scompaiono a migliaia, il sipario si chiude.
Sul tavolo dello studio il secondo taccuino, quello rosso dei successi.
Quello che Papille non porta mai con sé. Recita a memoria la prima pagina, biascicando quando c’è da premere la lingua sul palato, per via delle escoriazioni.
“Membro permanente del World Food Council, Presidente onorario della Health Psychological Food Embassy, socio dello Human Neuroepithelial Analysis Lab, laurea ad honorem in Scienze Gastronomiche sociali.”
Ricorda, ammiccando un sorriso, il rifiuto della cattedra di Analisi Sensoriale ad Harvard.
Considera le sue competenze non trasmissibili.
Forbes ha parlato più volte di lui. Quella volta che più gli stuzzica la memoria fu quando lo ritrassero su sfondo rossastro con forcone, lingua biforcuta e svariati tra i “migliori” chef mondiali pestati sotto il suo stivaletto.
Chiude il taccuino nella mente.
Dondola, il collo duole e le punte premono.
Dondola più forte. Ora, un bel calcio allo sgabello.
È coraggioso uccidersi, pensa. Mica vero sia da vigliacchi. L’apoteosi, il gesto estremo contro Dio, per chi ci crede eh.
Lo scivolone all’inferno di Lucifero è un po’ un suicidio secondo lui; per quanto ce l’abbiano mandato, il Diavolo voleva cadere giù.
Peccato la fede non gli appartenga.
Rimarrà nell’immaginario collettivo, impresso nel tempo.
Sarà un’altra vittima degli eventi.
Frugheranno le sue cose, scopriranno i suoi perché.
Ricorderanno di quando era il numero uno?
È in quel momento che un lampo gli brilla negli occhi. Dal taccuino rosso intravede l’angolo della foto che ha lì da un decennio o poco più, la foto del padre. Non la guarda da quando ce l’ha messa. Pensa a lui. Poi vede gli occhi dello Chef Sagripanti mentre miscela al brodo il Panace di Mantegazza. Sente l’odio nel cuore muoversi verso una categoria intera. Vede chef sfilare, in barba alla fame, nei loro sontuosi ristoranti, ingozzando e spennando avventori. Il lampo passa, lascia un’energia nuova.
Camperà per vendetta? Stroncarli con le sue recensioni da milioni di visualizzazioni non è più possibile e non è abbastanza. Partirà dal basso, illuminerà il lato oscuro del cibo.
Ricorda cosa gli disse il padre prima di uscire, il consiglio che non seguì mai. Glielo diede la sera dopo la violenza dei quattro bulli:
– Vedi figliolo, esistono persone buone e persone cattive. Per te, per me, quei quattro che ti hanno assalito sono cattivi. Per qualcun altro quei quattro sono vittime, magari risultano addirittura buoni. È relativo.
Papille ricorda il tono pacato della voce e il colore sbiadito della camicia a quadri del padre.
– Per il gusto vale lo stesso principio. – Continuava. – È relativo. Non esiste buono o cattivo in assoluto. Non si deve creare un cibo elitario definendolo buono e un cibo secondario definendolo meno buono, mai. Così è la vita.
– Non dimenticare di celebrare il cibo come fosse acqua: Semplice e di tutti. Puoi vivere senza acqua? – Concluse.
Papille non capì del tutto quell’ultima frase e non poté chiedere spiegazioni. Il corpo senza vita del padre venne ritrovato quella notte, a pochi metri dalla cucina in cui lavorava.
A fatica con la mano sinistra scioglie il cappio. Si accascia sullo sgabello piegando le ginocchia e scende a terra, si massaggia il collo e respira a fondo tutta l’aria che può.
È vivo. E l’impero del cibo crollerà.
Continua…