L’universo creativo di Simona Baldelli sembra poggiare le radici nella sua terra marchigiana, poi come un antico albero d’ulivo si sviluppa con un’intricata raggiera di rami e foglie, sempre nutrito da un impasto raro di realismo anche estremo (la guerra, la cronaca con i bambini maltrattati, le biografie di personaggi storici realmente esistiti) e narrazione fantastica (le fate contadine, i fantasmi dei vivi, l’ombra che accompagna la protagonista di Vicolo dell’immaginario). Era quasi naturale dopotutto che questo Natale in pandemia accogliesse un suo nuovo romanzo edito da Sellerio con il titolo Fiaba di Natale. Il sorprendente viaggio dell’Uomo dell’aria. Ed era altrettanto quasi naturale che – dopo tanti anni di frequentazione letteraria e amicizia – mi venisse voglia di farle qualche domanda.
Esci con una favola di Natale, a me sembra un evento molto bello, te l’aspettavi, lo hai cercato, era un tuo sogno nascosto?
È stato uno strano insieme di cose. Avevo scritto tempo fa questa storia, che si svolge durante il passaggio in cielo dello sciame meteorico delle Geminidi che si verifica alla metà di dicembre. Il titolo iniziale non mi convinceva granché. Poi, visto lo stile abbastanza “fiabesco” della scrittura e della costruzione del romanzo, mi sono detta: perché non esplicitiamo la cosa? In più, per infiniti motivi e non ultimo il confinamento che stiamo vivendo, ho sentito il bisogno di sentirmi e farmi sentire vicina alle persone. E ho pensato che il modo migliore fosse quello di raccoglierci attorno al fuoco e raccontarci fiabe.
C’è qualche libro di Natale che ami particolarmente, magari da suggerire a chi ci sta leggendo?
Rispondo con un racconto e un romanzo. Il primo si intitola proprio Racconto di Natale, di Dino Buzzati, autore che amo molto. È contenuto nella raccolta La boutique del mistero, si svolge nella notte di Natale in una cattedrale; il parroco cerca Dio, ma non riesce a trovarlo. Il romanzo è Il tram del Natale, di Giosuè Calaciura. Racconta il viaggio verso la periferia di un tram scalcagnato sul quale, la vigilia di Natale, salgono a bordo dei diseredati, persone che occupano gli ultimi posti della vita e della società.
Cosa ti attrae della figura del funambolo?
La precarietà, la fragilità. I protagonisti dei miei romanzi sono sempre figure “piccole”, marginali. Che ottengono un piccolo posto nel mondo (se e quando lo ottengono), attraversando pericoli e fatica. La figura del funambolo, che però vede tutto dall’alto e ha quindi uno sguardo più ampio, mi pareva rappresentasse alla perfezione questi due aspetti che mi affascinano molto. Il protagonista di questa mia Fiaba di Natale, poteva essere solo lui.
Che spazio hanno i sogni, il fantastico, l’irrazionale, nella tua scrittura?
Non riesco a separarli dalla concretezza. Ma non è una scelta, per me, semplicemente è inevitabile. I sogni, il fantastico e l’irrazionale, per citarli nell’ordine in cui me li hai proposti, hanno un peso grandissimo nella mia quotidianità. Certamente riesco a distinguere un fatto oggettivo da qualcosa che esiste solo nella mia immaginazione (non sono pazza fino a questo punto), ma entrambi fanno parte di quel che sono: un impasto di azioni e di emozioni. Ed è così per la vita di tutti, anche se una sorta di pudore o di autocensura ci impedisce di affermarlo. Hanno un ruolo predominante; e non potrei mai lasciare a casa un protagonista, non credi?
E nella tua vita?
Perché, c’è differenza? (sorrido) Facezie a parte, hanno un posto grandissimo e mi accompagnano sempre, ovunque, comunque.
Hai ormai un ritmo di quasi un romanzo l’anno. Riesci quasi sempre a trovare linfa vitale per le tue storie, come fai?
Credo venga da quella frequentazione con l’immaginario di cui dicevamo prima. Trovo storie ovunque: nella realtà, negli episodi accaduti e nella cronaca quotidiana. E se non stanno lì, me le invento (più o meno alterno romanzi di pura fantasia, con storie ideate da me, a romanzi storici ispirati a personaggi esistiti e fatti realmente accaduti). Secondo me, quando si è depositari di una bella storia, si ha il dovere di raccontarla.
Si riesce a vivere di scrittura oggi in Italia?
Io ci sto riuscendo. Con una fatica grandissima, come puoi ben immaginare e con l’aiuto di altre attività satelliti, come laboratori di scrittura ed editing di testi altrui, ma è possibile. Basta sapere ciò che si vuole. Per parlare con concretezza: è chiaro che se campi di scrittura e dintorni, molte cose stanno fuori dalla tua portata (a meno che non si abbia la fortuna di diventare un autore da best seller) ma se non vuoi cambiare macchina con frequenza e cenare esclusivamente in ristoranti stellati, che importa? Attenzione, non sto parlando di fare rinunce, perché, se le chiami “rinunce”, vuol dire che hai sbagliato le scelte. Io ho scelto di scrivere, nessuno me l’ha imposto. Ho la fortuna di fare un mestiere meraviglioso, grazie agli editori che mi pubblicano e ai lettori che mi leggono; di che altro avrei bisogno? (diceva qualcosa di simile il personaggio di De Niro in New York, New York, parlando del “magico accordo”). Mi dilungo un po’ su questo aspetto, se me lo permetti, perché capisco che sia un lato che spaventa chi si avvicina alla scrittura con la speranza di farne un lavoro. Se qualcuno con la passione dei viaggi, per esempio, investisse per viaggiare tutto ciò che guadagna, non troveremmo nulla da ridire. Ecco, io investo (quello che non m’importa di guadagnare) nella cosa che amo di più e voglio fare: scrivere. Come posso chiamare “rinunce” tutto il resto?
Sei anche un’ottima insegnante di scrittura, come li vedi gli aspiranti scrittori di oggi?
Timidi, porca miseria; timidi nel creare storie immaginifiche, con intrecci complessi, personaggi insoliti. Credo che dipenda anche da questa realtà sovraesposta così come la raccontiamo nei social, dove cerchiamo di piacere a più gente possibile, compiacere, far parte di un gruppo, essere “politicamente corretti” nei confronti di tutti. Non prendere posizioni definite per paura di pestare qualche callo. Manca un po’ di coraggio, forse. E dovremmo dimenticare la vulgata secondo cui è “l’editoria” a spingere in questa direzione. Non è vero. Quel tentativo di uniformare è piuttosto di certe consorterie, dopo la pubblicazione, portarsi sugli scudi a vicenda; ma ti posso assicurare che nessun editore rifiuterebbe a priori una storia insolita, con personaggi singolari che compiono azioni eccezionali. Se raccontata bene e con coerenza, chiaro. In generale, c’è timore ad alzare la testa dal proprio perimetro, da ciò che si conosce. Mentre invece dovremmo lasciarci ispirare da Dante, Cervantes, Verne, Asimov, per esempio. Poi, per fortuna, ogni tanto spunta qualcuno che riesce a “librarsi e liberarsi” da questa zavorra ed è una gioia accompagnarlo alla pubblicazione.
Un particolare legame ti unisce alla tua terra (hai scritto anche una sorta di guida turistica delle Marche), quanto contano le radici per chi scrive?
Credo sia importante capire da dove si viene, per intraprendere un viaggio. Ti aiuta a capire la direzione in cui ti muovi. E per me, che adoro le “lingue locali”, o dialetti, se preferisci, è fondamentale recuperare i suoni della propria terra per formare un linguaggio personale, distintivo.
Tra le altre tue esperienze è stata molto importante quella teatrale, quando scrivi dei personaggi, li interpreti, ti immedesimi come farebbe un attore, per sentirli più “reali”?
Li interpreto, faccio “le voci”, mi agito sulla sedia, grido, rido, piango, mimo le azioni… una fatica immane. Io tendo a mettere in scena degli allestimenti mentre scrivo, e se “prima” non vedo le cose, come fossero sulle tavole di un palcoscenico, non riesco a raccontarle.