“La squilibrata” di Juliet Escoria (Pidgin Edizioni)

Juliet Escoria scrive un romanzo in cui parla del suo tentativo di guarigione dal suo sentirsi fuori posto nel mondo

Siamo fatti a strati, il derma è il modo in cui mostriamo al mondo una parte del nostro corpo. La pelle può allargarsi e restringersi, squamarsi e arrossarsi, e sanguinare. Come la nostra mente. Cosa è davvero la normalità è un’impresa così difficile che persino i medici ne danno definizioni parziali. Nietzsche dice che la normalità è il grado di compromesso che ognuno trova con i propri demoni. La possibilità di attendere alle nostra abitudini quotidiane senza urlare alla luna come lupi o svenire per il sangue perso dopo esserci tagliati.

Juliet Escoria scrive un romanzo in cui parla di sé stessa, del suo tentativo di guarigione dal suo sentirsi fuori posto nel mondo, indegna di vivere, bisognosa di trovare stimoli alternativi alle voci che le urlano dentro e che la conducono in un luogo fatto di dipendenze e di assenza di speranza. Non c’è censura emotiva né fisica in questa scrittura così sincera, dolorosa e magnetica, che ci accompagna dal primo momento dissociativo alla fine di un percorso terapeutico in una scuola fatta per ragazzi con problemi, adolescenti mentalmente instabili, abusati o semplicemente senza difese di fronte a un mondo competitivo e perfetto che ti costringe a confrontarti costantemente con le tue imperfezioni.

In verità non esiste nessun essere umano perfetto ma per gli adolescenti americani il bisogno di essere approvati è spesso una moneta di scambio per l’essere amati, o credere di esserlo.

Quando a Juliet viene diagnosticato un disturbo di personalità bipolare sono già accaduti episodi di autolesionismo, deliri allucinatori, abuso di droghe, sesso compulsivo e promiscuo, e infine un tentativo di suicidio, seguito da un altro dopo 6 mesi.

I tentativi violenti di autodistruzione coinvolgono anche i genitori, non molto simpatici all’inizio, infastiditi da quella che credono eccesso di rabbia adolescenziale da frenare e punire, al punto che sono più in ansia per il tavolo e le mattonelle rotte che per questa ragazzina allo sbando. Le sue assenze scolastiche e il rendimento da bocciatura all’inizio sono una fonte di delusione così estrema da far dire a entrambi “Sei un mostro, dov’è finita nostra figlia?”.

Non amo queste famiglie monogenitoriali, dove tutto l’amore si riversa su un essere umano che catalizza le aspettative di madri e padri presi dai loro desideri, eppure qualcosa scatta in questi genitori quando vedono la figlia inerme, collassata e sull’orlo della morte per overdose da farmaci, al punto da cercare un luogo dove farla rientrare in connessione con se stessa.

Juliet viene rinchiusa (il ricovero è ovviamente coatto) in un collegio lontano dalla sua amata California, dalle spiagge e dai suoi amici. Un trauma che è destinato a farla riflettere e a farle esplorare le forme taglienti di oscurità, che ormai sono evidenti a tutti.

Eppure non sempre le nostre oscurità sono demoni da cancellare, perché a volte, se riusciamo a dominarle possiamo raccontare chi siamo, e succede spesso che dietro ogni maschera di persona apparentemente serena si celi un dolore oscuro o una serie di impulsi rabbiosi.

Juliet non è abituata a nascondere niente di quello che prova, il suo sentirsi straniera ovunque, emotivamente danneggiata e corrotta dal bisogno di stordirsi con ogni sostanza, lecita o illecita. Per questo sente di meritarsi la reclusione e le restrizioni, anche se cerca di eluderle masticando tabacco e cercando droghe, tentando di costruire legami umani fragili e intensi con i ragazzi e le ragazze che sono ospiti nella struttura.

Molti inferni sono incomunicabili ma Juliet prova a fare quello che fanno tutti gli scrittori: raccontare il dolore per renderlo comprensibile ai suoi stessi occhi. E raccontando il dolore racconta anche l’amore, finalmente il sesso con un ragazzo che ama, e le esplorazioni curiose di esperienze con le ragazze, quasi inevitabili nei luoghi assimilabili a prigioni, e la scoperta della capacità di tradurre il cuore in parole e di metterlo su carta, vivo e pulsante.

La malattia mentale è uno stigma, una lettera scarlatta più potente di qualsiasi marchio, ma mi chiedo, in maniera provocatoria, non siamo tutti danneggiati, e talvolta privi di equilibrio e confusi riguardo al nostro posto nel mondo?

È difficile individuare quale fu il principio. Quando la vissi, la mia disintegrazione mi sembrò improvvisa, come se un tempo fossi stata intera ma poi la mia realtà si fosse dissolta in sabbia.

La mia scuola si trovava sulla cima di una collina, alla fine di un vicolo cieco di una strada in un quartiere tranquillo pieno di case da milionari. Il campo giochi affacciava sull’oceano. Frequentavo la prima media, ed era l’inizio della primavera, dopo un inverno insolitamente freddo e piovoso. Mi voltai verso i miei compagni di classe per guardare l’oceano, che scintillava nella luce gialla, ed era così bello da risultarmi insopportabile. Percepii uno spostamento nella mia tettonica, una sensazione come se potessi esplodere fuori dal mio corpo, una lacerazione nel mio petto che faceva fuoriuscire qualcosa di caldo e sporco come lava. Mi sentii elettrica ed eccitata ma sapevo anche che era qualcosa che dovevo nascondere.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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