Esiste una letteratura light, fateci caso. È una definizione ironica di qualche anno fa di Filippo La Porta e di altri critici, non mia. Una letteratura che fa meno male, che contiene meno principio attivo, se si vuole, che affatica meno il cervello di chi legge, più “facile”, non più “semplice”, che interroga moralmente poco, che è scritta con una lingua priva di asperità e ombre, omologata sugli standard della comunicazione e dell’intrattenimento, facilmente esportabile, facilmente etichettabile. Ecco, questa letteratura light che predilige lo stereotipo all’archetipo, per così dire, votata sempre al “lieto fine” anche quando si occupa (o meglio crede di occuparsi) del male, fatta per riconoscersi senza traumi, beh, questa letteratura a me personalmente interessa poco. Se in libreria mi imbatto in qualcuno di questi libri, dopo una annusata veloce, li rimetto subito sul banco, indipendente dalla celebrità dell’autore.
Inevitabile a questo punto, a proposito di letteratura light, una piccola riflessione sul kitsch. Ma che cos’è il kitsch, o meglio qual è il significato attuale di questa parola. «Nel regno del Kitsch – scriveva Kundera nell’insostenibile leggerezza dell’essere – impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria». Da qui, il ricorso allo stereotipo, la sostanziale banalizzazione… Ecco uno scrittore credo che debba rifuggire oggi (ma in realtà sempre) dalle insidie del kitsch che sono sempre dietro l’angolo. In che modo allora possiamo evitare il kitsch? Per esempio evitando di scrivere di cose che non si conoscono molto bene, che non fanno parte della propria cultura e della propria esperienza, del proprio background. Evitando per esempio di ambientare una propria storia in un paese che conosciamo solo superficialmente. Se non si è americani e non si conosce bene quel paese, è meglio non scrivere un on the road americano. Se vi sentite attratti dal genere on the road – anche io lo adoro – scrivetelo nella campagna pugliese o casertana dove siete nati, sarà certamente meno fasulla.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.