Scerbanenco e l’appuntamento mancato

Nel buio liquido che avvolgeva la città gli sembrava di vedere sagome furtive, soldati, ufficiali inglesi e americani, profughi e fuggiaschi

L’uomo guardò l’insegna spenta, era già buio ma riuscì a vedere che era l’Albergo Corso, proprio il posto che stava cercando. Anche dentro era buio, ormai l’oscuramento era sempre più lungo, Trieste era tutta spenta e la guerra sembrava non dovesse finire più. La sagoma del portiere si mosse nell’ombra, biascicando un “Buonasera” tra i denti.
L’uomo disse piano un nome di donna, l’altro lo guardò con stupore e, distogliendo lo sguardo, disse che quella signora era morta, era accaduto un paio di settimane prima, un attacco cardiaco o qualcosa così. Morta, pensò l’uomo, è morta poco dopo il nostro ultimo incontro, quando mi ha dato appuntamento qui, per stasera.
All’improvviso si sentì molto stanco, il viaggio era stato faticoso, e adesso si ritrovava a Trieste, dove non conosceva nessuno e non aveva niente da fare. Guardò il portiere che era rimasto in silenzio, e gli chiese una stanza per la notte. Mentre prendeva la chiave e saliva a tentoni le scale si rammaricò di non aver chiesto di avere la stanza di lei, ma poi cosa si aspettava di trovare? Al massimo un pettine o un fazzoletto dimenticati, sarebbero stati comunque qualcosa, la prova che lei era esistita, era stata lì, e che lui l’aveva amata. Si buttò sul letto tutto vestito, tanto non avrebbe dormito. A giorni sarebbe partito per la Svizzera, con buona parte dei suoi colleghi del Corriere, ormai l’aria di Milano era diventata irrespirabile, ogni giorno retate o pestaggi, qualche amico era sparito senza dare più notizie. Avrebbe voluto chiederle di andare via con lui, finalmente avrebbero vissuto insieme, se lei lo desiderava l’avrebbe sposata.
Nessuna lacrima veniva a dargli sollievo, non aveva pianto neanche da bambino quando i bolscevichi gli avevano ucciso il padre, o mentre guardava la madre spegnersi, pochi anni dopo, in un letto d’ospedale. Niente più scuola, non aveva finito le elementari, e tanti lavori per sopravvivere, l’operaio o il conducente di ambulanze quando andava bene. Aveva sempre scritto, fin da bambino, a sua madre piaceva che lo facesse e, alla fine, aveva trovato lavoro a Milano, la città che li aveva accolti, in una casa editrice importante, e poi al Corriere, dove tutti lo chiamavano Giorgio, anche se il suo nome era Volodymyr.
Si alzò dal letto e andò alla finestra. Nel buio liquido che avvolgeva la città gli sembrava di vedere sagome furtive, soldati, ufficiali inglesi e americani, profughi e fuggiaschi e tutte le spie che in quei giorni affollavano Trieste.
L’avranno sepolta al cimitero di Sant’Anna, pensò. Avrebbe aspettato l’alba per uscire, per cercare un fiore da lasciarle prima di andare via.

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Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, Kiev, 28 luglio 1911 – Milano, 27 ottobre 1969, conosciuto in Italia come Giorgio Scerbanenco, scrittore italiano di origine ucraina, fondamentale autore di racconti e romanzi gialli e noir.

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