Un pomeriggio blu

Il racconto di Marilena Votta. Luca e Tatiana: due solitudini s'incontrano a bordo piscina.
copertina di Luigi Annibaldi

Aveva qualcosa di familiare, come la copertina di un libro già letto, l’attimo di indecisione che precede i saluti. La mano alzata a mezz’aria, come se potesse giustificare un gesto distratto nello scacciare una mosca, se lei, in effetti non si fosse rivelata lei. A giudicare, invece, dal modo in cui lei ricambiò il saluto, con un sorriso radioso, nonostante la presenza di piante e arbusti tra loro che nascondevano un poco la visuale, immaginò che non si fosse sbagliato. Tamara? Tatiana? Un nome dal suono vagamente esotico, esattamente come lei, che con un gesto quasi malizioso arrotolava e srotolava la punta della lingua rosea da bordo del bicchiere, mentre con le dita era pronta a succhiare l’oliva dell’aperitivo. 

“Ciao Luca. Che bello vederti a questo convegno. Non ero sicura che ci saresti stato”.

Aveva una elasticità dorata nei gesti, i capelli castani schiariti dal sole. Dritti. Come una coperta. “Come stai Tat…”. Gli era venuta tronca l’ultima parte del nome, ancora vago su come dovesse concludere. “Tatiana”. Completò lei. Agitando il liquido giallo nel bicchiere e facendone cadere qualche goccia sul risvolto chiaro dei suoi pantaloni di lino. Era seguito un attimo di imbarazzo, qualcosa di sospeso, quando puoi fare un sorriso gentile e cercare uno smacchiatore borbottando maledizioni in dialetto, oppure restare, accettare le scuse e continuare a parlare. Era stato un attimo. Poi al suo gesto di fastidio, erano cominciati i singhiozzi maldestri di lei. Che c’è da piangere. Avrebbe voluto chiederlo, con gentile e ferma distanza. Avrebbe voluto che la cosa restasse normale, un piccolo incidente, senza emozioni eccessive, sproporzionate. 

“Non sopporto le lacrime. Non so mai che fare.” L’aveva pensato senza dirlo, ma qualcosa dell’energia del suo impaccio doveva essere arrivato fino a lei, che aveva intensificato i singhiozzi.

La gente, anche qualche collega, li guardava incuriosito, e poi con aperta malevolenza, come se fosse lui il responsabile delle lacrime. 

“Guarda Tatiana non ho idea di quello che è successo, ma togliamoci da qui”. Le aveva appoggiato la mano sulla spalla e l’aveva guidata sotto il gazebo, giusto per vedere smettere il movimento convulso delle sue spalle. Scosse. 

“È che non sopporto gli sbagli, gli errori. Da piccola sono stata molto rimproverata e quindi…”. Gli occhi arrossati, rivolti verso di lui, pieni di fiducia. Un discorso talmente da pazzi che doveva essere sicuramente vero. Ma un amico a cui puoi raccontare queste cose non lo tieni. Si era morso le labbra un attimo. Non voleva offendere nessuno. Ma poi la domanda gli era salita alle labbra, spontanea. Lucida. 

“Ma ti droghi?”

Tatiana aveva annuito. Felice. “Certo che sì. Sennò come farei a sopportare tutto questo – Si era girata, i gesti rallentati, mentre appoggiava il bicchiere di prosecco con cautela su un vassoio – Questa insensatezza. Questa chiassosa solitudine. Tutte queste cose che non servono.”

Si erano stretti nelle spalle con lo stesso identico gesto, e avevano cominciato a ridere, come bambini che riescano ad ingannare la maestra. Per un attimo, un solo istante, Luca pensò che, forse, dovevano sembrare ridicoli, catturati così nella luce digradante del tramonto estivo; lui con una macchia sui pantaloni che poteva sembrare pipì, e lei con le braccia che si muovevano a scatti nervosi, come quelle di un pupazzo caricato a molla, gli occhi ancora pieni di tracce di lacrime. Gli era preso a ridere perché lei era carina, oltre che folle, e lui era stanco. Perché in fondo aveva detto una cosa che lo svelava, in tutte le contraddizioni che in quegli ultimi mesi gli rendevano la digestione faticosa e gli appannavano il sonno. Sopravvivere alle corse e agli impegni che gli piovevano addosso come pioggia. La stanchezza avvolgente come una coperta. Le cose a cui non sapeva dire di no. 

Tatiana aveva fatto qualche passo indietro. Barcollando sui tacchi. Una mano a conchiglia sulla bocca per nascondere uno sbadiglio, mentre con l’altra gli aveva preso il mignolo e lo teneva stretto. “Andiamo via”. Non era una domanda, conteneva quasi un imperativo. Luca non riusciva a vedere nessun buon motivo per rifiutare, perciò aveva risposto a quel contatto, intensificando la stretta, e l’aveva seguita, attraverso corridoi nascosti da tende e ascensori in cui bisognava quasi toccarsi per starci in due. 

La chiave era pesante, di ottone antico, niente a che vedere con le schede magnetiche. Sapeva di splendori nobili. L’odore del metallo che quasi gli arrivava in bocca, mentre apriva la porta della stanza di lei. “Non riesco ad aprirla, Luca puoi fare tu?”. Adesso, scomparse le lacrime, Tatiana sorrideva con tutto il bianco dei denti messo in mostra. Sembravano caramelle alla menta. I suoi denti. 

Quando l’aveva baciata aveva sentito un sentore vago di collutorio, con un retrogusto acido di vino. Lei aveva risposto a quel bacio con foga eccessiva, mordendogli le labbra, al punto che aveva dovuto spingerla via. 

“Marò”.

“Eh lo sai che mi piace tanto la tua napoletanità? Il modo in cui ogni tanto fai uscire una parola in dialetto. Mi ha colpito tantissimo, già dalla prima volta.”

“Sì va bene. Ho capito. Ma mica mi devi mangiare.”

Qualcosa di strano era passato nello sguardo di Tatiana “Mi piacciono le cose estreme, sai. Quelle che non ti lasciano il tempo di pensare. Se mi fermo mi viene l’ansia.”

Aveva cominciato ad elencargli gli sport che faceva. Free climbing. Deltaplano. Rafting. Parkur. Arrampicata. Lancio con il paracadute. 

Lui le aveva messo un dito sulle labbra. “Senti facciamoci una botta di roba buona e non se ne parli più, ok?”

In fondo se devi prendere due aerei al giorno e ascoltare persone che parlano di cose inutili, meglio che lo fai drogato. 

La polvere bianca, innocua come talco, gli cadde addosso. Non era abituato, ancora, a tirarla su, così la fece cadere quasi tutta tra la camicia e i pantaloni. Sulla chiazza giallina, ormai asciutta, di prosecco. 

Lei rimase a guardarlo. Il naso che gocciava muco. Gli occhi spalancati. Enormi. 

Scuoteva la testa per dire che non importava, improvvisamente a corto di parole. 

C’era qualcosa di così triste in quel tardo pomeriggio estivo, l’odore sconosciuto di quella ragazza che non lo eccitava, la droga sprecata. Le mani in alto in segno di resa. 

Tatiana colmò lo spazio tra loro, stringendolo alla vita. Con forza. Aveva ricominciato a piangere, piano piano. Sembrava il miagolio indistinto di un gattino dietro una porta.

Il viso girato verso di lui. Lucido di saliva. 

Era stata lei a toccarlo, sfregandolo un po’. Quanto basta. Si era tolto i pantaloni mentre lei lo guardava. La luce dei lampioni da fuori che dava una sfumatura di blu alla stanza. Si erano infilati a letto con gesti lenti, svogliati, quasi da coniugi contriti, avvolti nella crocchiante freschezza delle lenzuola odorose di candeggiante industriale. Tatiana respirava con la bocca, quasi fosse a corto di ossigeno, quando, all’improvviso gli piantò le unghie nella schiena. Aveva delle unghie piccole, smaltate di arancione. Sembrava un gatto che tira a sé con forza un topolino, dimentica della noia di solo qualche istante prima. Lui aveva cominciato a scuotersi, sentendo di non gradire quel contatto così intimo: un gesto di possesso che, tutto sommato, non pensava che lei avesse il diritto di fare. Ma più si muoveva agitato sopra di lei, più lei insisteva, circondandolo con le gambe, stringendolo con tenacia. 

Si era affrettato a finire, deluso. Con un ultimo ansito si ritirò da lei, rotolando su un fianco, scocciato per quei graffi rosei sulla spalla accompagnati da piccole schegge di smalto arancione. “Speriamo che non sia tossico, questo smalto”. Non voleva rimanere a farsi una doccia con lei, né tantomeno a dormire. L’aveva osservata abbastanza, dentro e fuori dal letto, da essere certo di non sopportarla, notando le cose che gli davano fastidio: il naso leggermente storto, che le faceva emettere un sibilo fastidioso, il suo modo di parlare cantilenante, il modo ossessivo in cui sbirciava le altre donne, le lacrime inopportune, il suo orrido vestito bianco a balze, che la faceva somigliare a una ragazzina pronta per la cresima. 

Lei non aveva cercato di fermarlo o di blandirlo. Era rimasta ferma nel letto mentre lui si rivestiva. Si era limitata a guardarlo, ferita. Le mani con lo smalto ormai rovinato che torcevano un pezzo di lenzuolo, nervose. Il piccolo seno un poco pendulo, mentre si toccava i capezzoli, forse per darsi un piacere che lui non aveva saputo darle. “Siamo sempre soli, e cattivi, pure quando scopiamo.” Doveva essere il down della droga dopo l’euforia. Qualcosa in quell’espressione delusa l’aveva bloccato, già con la mano sul pomello della porta. La schiena di Tatiana descriveva una curva che gli aveva ricordato una tartaruga. Non avrebbe mai saputo perché aveva cambiato idea. Forse per quello sguardo senza richieste, triste come gli amori andati a male quando ci ripensi. “Dai, resto qui a dormire se vuoi.” L’aveva vista sorridere. Un sorriso vero. Radioso. Gli si era accoccolata contro, esattamente come fanno tutte le donne. Gli aveva appoggiato le mani sulla pancia, rilassata. Per fortuna era stanca e non aveva più parlato. Si era svegliato in un bagno di sudore. Le prime luci del giorno gli si riversavano addosso come acqua. Si era alzato ed era andato via, muovendosi piano, le mani che brancicavano i vestiti. I graffi sulla schiena che gli bruciavano un pochino. Un lieve indolenzimento al plesso solare, dove Tatiana aveva appoggiato la testa dandogli dei leggeri colpi durante il suo sonno inquieto. 

Per fortuna era riuscito a evitarla per tutto il giorno, alle sessioni di lavoro. Il fresco dell’aria condizionata che gli schiariva i pensieri. L’inchiostro blu sulle pagine di appunti. La vita reale intorno a lui. Il respiro che si normalizzava. 

Di nuovo, come per una magia temporale, alla fine del pomeriggio, se l’era ritrovata di fianco in piscina. Non l’aveva riconosciuta, visto che aveva la cuffia. Erano entrambi ricoperti di goccioline d’acqua e puzzavano di cloro. “Non porti la fede quando nuoti?”

“No, me la tolgo sempre”. Il suo tono era secco, deciso, come chi ammette un dato di fatto che non ha bisogno di essere spiegato né discusso. Il cerchietto dorato era lì, appoggiato sull’asciugamani, come uno scudo, pronto a difendere la sua esistenza contro le rivendicazioni fatte dalla brillante capigliatura di Tatiana. Lei aveva sorriso, educata, leggermente accondiscendente, mentre, con pochi movimenti decisi, si era tolta la cuffia, e aveva raccolto i capelli, a chignon, le piccole mani intente ad acconciarseli sulla testa con delle forcine argentate. Una pettinatura che sua nonna avrebbe definito “a tuppo”, intendendo proprio quella cosa informe, molle, di pettinatura avvolta su sè stessa, appesantita dall’acqua. “Non metto mai la fede quando nuoto”. Aveva spiegato serio, giusto per far intendere che non era un gesto di delicatezza riservato a lei, né un omaggio alle sue labbra imbronciate, tremule. Dispiaciute. “Lo so che sei sposato. Solo che mi dispiace. Non so perché, ma credevo che avessimo condiviso un momento. Un momento di chi si riconosce in mezzo alla folla. Di chi tocca la solitudine dell’altro.”

“Non può essere stata la droga?”

“Non scherzare dai. Grazie a te è caduta tutta. Quindi non è stata la droga”. Tatiana, aveva fatto un gesto con le braccia, nell’attimo di pausa in cui a Luca erano mancate le parole, indicando il mondo che li circondava, incurante di loro due, del loro legame che si sarebbe dissolto di lì a qualche ora. Il brusio di voci, i gesti chiassosi dei bambini, i palloni galleggianti a strisce viola e rosa. “Che bel colore di cielo, no? Sembra quasi un quadro impressionista”. Lui si era leccato le labbra, indeciso su cosa rispondere, e nell’attimo di distrazione che precede il rifiuto, lei si era seduta vicino a lui, toccandogli le cosce abbronzate con le dita bagnate, lo smalto rovinato in più punti. “Vorrei non tornare alle cose che mi aspettano. Vorrei lasciar perdere tutto. Vorrei che potessimo stare sempre immersi qui nell’acqua, in questo blu.”

Si, come spugne. Aveva pensato lui. Proprio quello che voleva per il resto del suo futuro indeciso e vago, già così consumato da quel cerchietto d’oro. “Ci mancava pure questa ossessiva creativa và”. Una che in un pomeriggio blu vede un amore romantico benedetto dai colori. Una che è talmente fuori di testa da fare sport estremi per calmarsi. Una che dà troppo valore a cose che di valore non ne hanno nessuno. 

La pressione delle dita di lei sulle cosce si era intensificata. Ormai le sue mani si muovevano come piccole bisce d’acqua, avide di arrivare alla meta. Le aveva afferrate, entrambe, quelle mani. Per farle stare ferme. Per zittirla. Aveva i palmi arricciati e sembrava quasi una bambina mentre lo guardava con un’espressione speranzosa e infantile, illuminata dalla luce in dissolvenza, tutte le cose di lei che lo infastidivano sospese in quella liquidità. Gli era sembrata, in quella luce, chissà come mai, perfetta. Oltre quella parlata del nord fastidiosa e querula, oltre l’odore di cloro che gli lasciavano addosso le sue dita invadenti, oltre la sua pancia un pochino molle. Oltre tutto il fastidio che sentiva verso di lei. Una responsabilità che doveva interrompere. Subito. 

“Senti Tatiana, chiariamo un attimo. Tra noi non c’è niente. Stanotte non è stata questa gran passione e lo sai.”

“Però sei rimasto a dormire.”

“Mi hai fatto tenerezza. E mi sono fatto schifo io, per quel contatto così inutile tutto sommato.”

Il suono di quella parola aveva aleggiato tra loro come un cattivo odore. Inutile. 

Lei era rimasta interdetta. Le minuscole mani a coppa. Nervose. Non aveva trovato nessuna combinazione di parole adeguata per una risposta. Si era alzata di scatto. Rossa in faccia. Le mani sugli occhi per difendersi dal sole o dalla vergogna. Una forcina d’argento caduta a terra. Luca l’aveva poi raccolta, distratto, pensando che, magari era stato troppo precipitoso, che la luce blu del pomeriggio era solo l’inizio della sera, e che quel momento, forse, aveva rivelato un’intesa inaspettata tra loro. Colpito dalla sua rabbia, nitida, compatta come l’acqua oleosa della piscina. Gli era piaciuto, quel gesto di rifiuto, di difesa. Chissà. 

A bordo piscina, prima di cena, si era avvicinato a lei, che spiccava come una macchia bianca di luce in un quadro scuro. Il vestito a balze, quello della cresima, tirato come un fazzoletto, fino alla vita, che la faceva sembrare una barbie sposa. I capelli di nuovo in piega si muovevano a scatti di qua e di là. Le gambe snelle, dal colorito color cannella. 

Tatiana però non dava cenno di accorgersi di lui, lo sguardo vacuo quando per sbaglio incrociava il suo. Come se non l’avesse mai visto prima. Nessun barlume di riconoscimento, mentre lui le girava intorno con la forcina color argento, brandendola come una forchetta. Lui le gironzolava intorno e lei scuoteva i capelli, vezzosa, intenta a parlare con un ragazzo dalla giacca grigia. Brandelli di conversazione gli arrivavano a tratti. Aveva una voce più che mai squillante. “Oh. Mi piacerebbe moltissimo rivederti nella mia città. Ti farei vedere tutti gli angoli nascosti.”

“E tutti in un pomeriggio blu”. Non sapeva perché avesse fatto un’uscita simile. In fondo era lui ad essersi comportato male. Ne era consapevole. Eppure. Si mordeva le labbra, nel suo modo tipico di esprimere risentimento. Si stava comportando da ragazzino geloso. Lei l’aveva guardato un attimo e poi liquidato con un gesto della mano, lo smalto, questa volta color prugna, di nuovo intonso. All’anulare sinistro un diamante grosso almeno quanto un nocciolo di pesca. Lo aveva presentato al suo interlocutore di malavoglia, visto che proprio non poteva farne a meno. 

“Questo è Enrico, un amico del mio fidanzato. Lui è Luca, un collega di Napoli”.

Tatiana aveva corrugato le sopracciglia in un gesto di complicità. Ammiccante. Era proprio una gattina. Con le unghie affusolate. Bisognosa di coccole. Non c’era nessuna traccia in lei della fragilità di qualche ora prima, che adesso si era trasformata nel completo controllo dello spazio che occupava. L’odore di cloro dolciastro, intenso. “Quindi sei fidanzata?” Era seguito un silenzio imbarazzato. Tatiana aveva risposto, un po’ svogliata. “Mi sposo il mese prossimo.” 

Le parole di lei che avrebbe ricordato una volta tornato a Napoli, steso nella sua porzione di letto accanto a Mariapina. Il russare di sua moglie mentre scivolava nel sonno. Le parole di Tatiana che gli sarebbero tornate in mente avevano il sapore della distanza tra quello che siamo e quello che ci possiamo permettere di essere. Siamo sempre soli. Abbiamo bisogno di droga per sopravvivere alle cose che non ci servono. Un matrimonio. Un lavoro. La gente che ti tocca e poi scompare. Quella che vuoi trattenere e che non ti vuole. Le cose belle che ti capitano e che non hai saputo apprezzare. Il tempo mangiato dai tarli degli impegni. Roba così. 

Si era rivisto accanto a una ragazza che gli aveva ricordato il suo non essere mai davvero presente nelle cose che faceva. Sempre occupato a tenere tutto a una sana distanza di sicurezza. Invischiato nel gioco dell’insoddisfazione. 

Qualcosa aveva cominciato a scorrergli dentro. Qualcosa che aveva la consistenza della rabbia, una forma di energia a basso voltaggio. Si era sentito bloccato, come se avesse i piedi e le gambe, le braccia, e il cuore e il sesso immersi in un blocco di fango. Senza nessuna possibilità se non quella creata dall’agenda elettronica di lavoro e dall’obbligo di una vicinanza fisica che, almeno nelle intenzioni, era senza fine. 

Non avrebbe mai saputo cosa sarebbe potuto accadere se avesse deciso di restare a mollo con Tatiana, con le dita di mani e piedi che diventavano blu per il freddo. Forse lei avrebbe detto al fidanzato che non voleva più sposarlo. O forse no. I momenti di lucidità vengono messi da parte dalle persone come lei. 

La forcina gli aveva bucato la pelle sotto l’unghia. L’aria più fresca della sera gli aveva aggricciato le braccia. Se le era strofinate, sopra pensiero. Tatiana aveva la faccia distorta in una smorfia interrogativa, in attesa. La conversazione interrotta. Il ragazzo in giacca grigia che tossicchiava, imbarazzato. 

“Non vi volevo disturbare. Allora auguri eh”. Si era girato urtando delicatamente la spalla di Tatiana. La bocca di lei in un’esclamazione di disappunto. Quella che precede di un attimo una bestemmia. 

Si era scusato con gli occhi, senza fermarsi, allontanandosi con il suo passo veloce, mentre Tatiana iniziava un lamento soffuso come un pigolio. La macchia rossa di vino che si espandeva come una ferita sul bianco del vestito. 

La forcina color argento lanciata via con forza, che, dopo un piccolo rimbalzo, era rimasta a galleggiare nell’acqua blu della piscina.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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