“Underjungle” di James Sturz – traduzione di Ilaria Oddenino (Blu Atlantide)

Una struggente, lirica meditazione sui confini delle specie viventi, sulla perfezione del contatto tra creature e il dolore devastante di perdere quella felicità perfetta.

Aria e acqua. Due elementi che coesistono per brevi attimi e poi sono destinati a ignorarsi. Prima di appartenere al mondo dell’aria nuotiamo nel corpo di nostra madre, e il contatto con l’aria è freddo, brusco, traumatico. E una parte di noi desidera ritrovare la magia del mondo fluttuante, salato, dove la crudeltà è naturale e, a suo modo, perfetta, incantata.

Nelle profondità oceaniche vivono creature intelligenti, senzienti, che progettano il loro futuro e cercano di coesistere con la brutalità acquatica di creature più grandi, capaci di spezzare e distruggere il loro equilibrio, di frantumare con i denti i piccoli dischiusi da migliaia di uova luminescenti, e di interrompere la loro vita in movimento. Nell’oceano ogni creatura è salata, è movimento incessante, è alla ricerca di sicurezza e d’amore. Hanno i loro riti, come scarnificarsi la pelle con dei segni fatti con pietruzze o conchiglie, il simbolo dell’entrata nell’età adulta. E hanno anche alcune forme di divinazione, credono in varie divinità che simboleggiano l’inizio di ogni cosa.

Quando una creatura umana che non porta, per una volta, né morte né distruzione arriva da loro, la studiano con attenzione.

L’intelligenza del narratore è qualcosa di più che una singola entità, è un insieme molteplice, che ama in maniera struggente e poi subisce la perdita dell’amata, e nuota cercando una risposta a cosa sia l’amore, se ogni volta che si ama si riproduce lo stesso sentimento, o si usano le stesse parole-non -parole per indicare cose simili, ma non uguali?

La comunità e la sua sopravvivenza sono gli imperativi nel mondo sommerso, dove il blu con la sua cupezza acceca più del sole, dove noi, creature prosciugate dell’acqua, non possiamo vivere, e dove vogliamo, a volte, tornare per ritrovare la musicalità oltre il frastuono del mondo emerso.

Una struggente, lirica meditazione sui confini delle specie viventi, sulla perfezione del contatto tra creature, e il dolore devastante di perdere quella felicità perfetta, e la capacità di ricominciare, con gli arti che si riproducono, e il linguaggio che protegge e funge da richiamo nelle situazioni di pericolo.

Nell’oceano esistono prede e predatori, in maniera binaria, senza troppe speculazioni. E inevitabilmente le prede, per salvarsi, devono essere più veloci, più capaci di nascondersi, in grado di approfittare dei momenti di perdita di equilibrio e di debolezza dei predatori. A parte questo binarismo, niente che strisci o nuoti nel mare è binario, ogni creatura può cambiare genere, se lo desidera e se ne ha bisogno, e nessuna di esse viene mai imprigionata, a meno che non lo desideri esplicitamente.

Non si possono fare paragoni tra il mondo oceanico e quello che viviamo, però io so, da creatura non acquatica, che vorrei abitarlo, un giorno, senza invaderlo. Per ricordare da dove siamo arrivate tutte noi creature viventi, senza distinzioni, unite dalla forza primordiale che ci spinge a uscire con fatica dal caldo utero acquatico e ci proietta in un mondo freddo, dove la pioggia non ha sale, e con la nostalgia potente, faticosa, con la quale conviviamo, di quel mondo blu, senz’aria. Ho spesso nostalgia del corpo di mia madre, nel quale ho nuotato, senza averne memoria cosciente.

 

“Mi sono innamorato di te da lontano, della tua pelle che era un’onda. So che non è stato l’influsso della luna. Odoravi di acqua dolce, purezza e complicazioni tra la sabbia e le conchiglie polverizzate. Sapevo già che aspetto avevi, e come ti muovevi.

Ero una pozza nell’oceano. Volevo che ti sciogliessi insieme a me.

Avresti dovuto sentirmi.

Ero pena, rimorso, violenza, nostalgia, perdita. Ero un movimento rapido e sicuro che si insinuava nei varchi e aggirava i macigni. Ero destrezza ed ero ritorsione, dolore. Ero leggenda, storia, e condanna. Ero tutti i nostri piccoli, vivi e morti. Ero Gola e Gijla, e Galla e Govili. Ero te, lo sono sempre stato. Ma avresti sentito che ero anche Aaa, o per accorgertene avresti avuto bisogno degli occhi?”

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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