Un libro che, senza una narrazione giudicante, ci parla di lotta di classe, dell’abisso che ancora esiste tra servi e padroni, dove una ragazza che si occupa di una famiglia dorme in una specie di sgabuzzino, nascosto da una porta pieghevole, fatta per non togliere spazio a una casa grandissima, completa di piscina. Estela Garcia ha vissuto per sette anni con la famiglia del dottor Cristobal Jensen, chirurgo affermato, e di sua moglie, Mara, avvocato, e da sola ha cresciuto la loro figlia, Julia, la bambina che avrebbe dovuto essere perfetta, bellissima, ricoperta di oggetti, giocattoli, possibilità asfissianti, e poco, pochissimo amore. Estela ha una divisa per ogni giorno della settimana, sempre uguale, con il colletto che stringe alla gola e una serie di bottoncini, ed è lei che cucina, lava la loro biancheria, combatte con la sensazione opprimente della solitudine in una Santiago oppressa dal caldo e dalla rabbia.
La dimensione di privilegiati dei Jensen è ben nota a Estela, che soffre la nostalgia della povertà condivisa con la madre, l’odore salso del mare, la vicinanza a un mondo oscuro e brutale ma non finto. Il miraggio che poi diventa necessità, quando la madre si rompe una gamba e la incatenano al suo lavoro e alle emozioni malsane dei suoi datori di lavoro, ostinati nel loro miraggio di felicità a tutti i costi, ciechi e sordi al dolore della figlia, che implora la loro attenzione, sullo sfondo di un Cile dove le differenze salariali aprono fratture e preparano rivolte.
Quando Julia viene ritrovata morta in piscina, non si sa se per un incidente, la bambina sapeva nuotare, o un deciso gesto disperato di autoaffermazione, alla vigilia della sua festa di 8 anni, è Estela a tentare di rianimarla senza risultato, è lei a raccogliere le briciole delle confidenze di solitudini mostruose e di segreti inconfessabili che i genitori nascondono, dove la bambina è il prodotto del tentativo di una perfezione borghese inseguita e perduta. Estela racconta del rifiuto di Julia di mangiare, delle sue pellicine morsicate a sangue, di malesseri inventati per sfuggire alla routine devastante di lezioni di pianoforte e ripetizioni private di cui non ha affatto bisogno. Estela, senza freni, racconta le facce dolorose e doloranti della mancanza di calore umano all’interno di una casa che è un guscio vuoto, un ornamento che soddisfa la vanità di chi la possiede. Non c’è possibilità di comunicazione tra le cose che Estela vede e quelle che i datori di lavoro fingono di non vedere, se anche venissero trovate le parole per spiegare, quelle parole verrebbero rivoltate come un lenzuolo, e lei sarebbe cacciata via. A Estela restano momenti rubati: una sigaretta fumata con il garzone del negozio di alimentari, affetto e attenzione verso una cagna randagia, che verrà cacciata via quando la padrona la scoprirà e la cui morte segnerà l’inizio della fine del Paradiso per i genitori di Julia, contemporaneamente alla grande rivolta che porterà folle di persone distrutte e furiose verso gli scontri di Plaza Alameda.
Una narrazione serrata, ossessiva, potente, a tratti flusso di coscienza, che alterna vari piani temporali, fa sì che Estela ci accompagni dentro la condizione priva di speranza di chi lavora per gli altri, che non conoscono nulla di lei se non quello che a loro interessa, come se fosse un’ombra. Estela non è mai stata considerata una persona, assimilata alla sua mansione, svilita da chi ha il potere di donarle l’illusione, attraverso il compenso, di una vita migliore. E sono le parole, ancora una volta, a chiarire chi ha il potere tra loro. Le parole capaci di raccontare i segreti dietro labbra serrate e porte chiuse. Le parole che sono in grado di salvarci dall’oblio.
“Ditemi voi che cos’è un inizio. Spiegatemi, per esempio, se la notte viene prima o dopo il giorno, se ci svegliamo dopo aver dormito o dormiamo perché ci siamo svegliati. Oppure, per non esasperarvi con i miei giri di parole, ditemi dove comincia un albero: col seme o col frutto che prima avvolgeva il seme. O magari col ramo da cui è sbocciato il fiore che poi è diventato il frutto. O con il fiore stesso, mi seguite? Niente è semplice come sembra.
Qualcosa di simile succede con le cause, sono confuse come gli inizi. Le cause della mia sete, della mia fame. Le cause di questa reclusione. Una causa ne provoca un’altra, una carta da gioco cade su quella successiva. L’unica certezza è l’epilogo: alla fine niente resta in piedi”.